Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi
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Roma di tutto ti si farà maestra, nè con parole inani, tristo retaggio del secolo tabella, bensì con esempi gagliardi i quali solo possono rimettere i nervi a queste nostre generazioni sfatte. Sì tu apprenderai a che meni lo screzio tra patrizi, e plebei, e come sia più prudente invece di partecipare a questi i privilegi dei primi, torre via le disuguaglianze non solo al cospetto della legge bensì per quanto fie possibile nelle sostanze mercè gli ordini della buona economia, negl’intelletti in grazia della diligente educazione. – Roma t’insegna come gli stati precipitino quando una classe dei cittadini accaparrati per sè gli utili, e il seguito che vengono dai pubblici offici ne pretenda escluse le altre, e i governi diventino consorterie ingiuste sempre per necessità ingiuriose, provocataci, e superbe le quali contese se finiscano con certa maniera di empiastri dove veruna delle parti rimanga soddisfatta è male, e se per tumulti dove scapitino tutte è peggio: guai se mettano capo agli esilii, alle carceri, e al sangue. I Gracchi, come avvertiva il Mirabeau, morendo gittano all’aria un pugno di polvere insanguinata, e da cotesta terra nasce Mario. Mario suscita Silla, quindi a breve Tiberio erede della Repubblica strangolata; poi i Barbari giù dalle Alpi a mo’ di Lupi accorrenti all’odore del sangue.
Quivi Stolone ti si conficca nella mente immagine perenne del plebeo povero abbaiatore dei ricchi, che fa mettere la legge, veruno cittadino si attenti acquistare oltre i cinquecento jugeri di terreno: raccolta poi buona quantità di pecunia ei ne compra mille; nè per onestare la cosa gli giova metterne cinquecento in testa del figliuolo, che posto in accusa da Popilio Lena con la sua medesima legge è condannato.
Roma per norma al popolo nostro di costume veramente civile, onde come a pietra di paragone ci provi i suoi uomini, ti addita un Marco Rutilio Censorino, il quale eletto per la seconda volta censore raduna il popolo e lo ripiglia severamente perchè con siffatta elezione prolungasse la durata di un ufficio, che i padri ordinarono breve come quello, che conferiva soverchio seguito; un Fabio Massimo cinque volte consolo, ponendo mente il padre, l’avo, e il bisavo avere tenuto il medesimo maestrato, arringare il popolo per dissuaderlo a eleggere il suo figliuolo, non già per manco di virtù, che in lui concorrevano copiosissime, bensì perchè fosse di esempio pessimo il continuato imperio nella medesima famiglia; uno Scipione Affricano, che contrasta al popolo la facoltà d’inalzargli statue, e decretargli qualunque onore o mercede perchè combattendo i nemici della Patria egli compiva il debito di cittadino, e non altro.
Colà in Roma apprenderai il cittadino armato non estimarsi nè essere tenuto da più degli altri, anzi o meno, o da guardarsi maggiormente come quello, che può riuscire da vantaggio pernicioso alla repubblica; anteponendosi a buon dritto Licurgo, Solone, Numa e simili a Temistocle, ed a Cammillo però che questi con le armi tutelassero la Patria una volta sola, mentre gli altri con le leggi provvidero alla prosperità, e sicurezza futura di quella: nè ciò per sentenza del solo Cicerone, bensì degli stessi imperatori Leone ed Antemio, e consegnata nelle leggi dove si trova scritto, «che non solo quelli i quali sono armati di corazza, di scudi, e di brandi militano per lo impero, ma i giurisperiti altresì; militano coloro, che fidati nel glorioso dono della eloquenza difendono le speranze, la vita e la posterità dei cittadini»
Le armi cedevano alla toga; e se taluno si attentava affermare in mezzo allo strepito dei ferri non farsi sentire la voce delle leggi questo soldato era Mario, che poi ruppe ogni legge. In Roma Postumio Tuberto, Manlio Torquato consoli dannano a morte i propri figliuoli perchè malgrado il divieto loro avessero assalito e vinto i nemici. E se Papirio dittatore dopo avere condannato alle verghe Fabio Rulliano, che senza ordine del dittatore combatte e rompe i Sanniti, gli rimette la pena ciò fa annuendo alle preghiere del popolo romano, e dei tribuni suoi mossi a compassione del padre di Fabio già dittatore, tre volte consolo, e salvatore di Roma; con questi, e tali altri esempi si mantenne la disciplina costà, e vi sarebbe comparsa, come veramente ella è, immane cosa, che un soldato avesse ardito, come testè accadde a Torino, presentatosi in Parlamento vantarsi avere trasgredito la legge; mostruoso fatto da invertire ogni ordine della Repubblica, che l›Assemblea lo lodasse, ruina espressa della Libertà poi se con guiderdone siccome benemerito lo avessero proseguito. – Più tardi la Repubblica rimase contristata da simili esempi, ma allora i soldati non obbedivano più la legge bensì l›uomo, non cittadini, bensì gladiatori, infesti per fermo alla Libertà, non però meno esiziali al tiranno, che vie vie ammazzano mettendone il trono allo incanto.
A Roma imparerai come nelle guerre civili il Capitano non pigliasse titolo d›imperatore, nè vincendo gli rendessero grazie per decreto, nè egli ardisse menare l›ovazione, molto meno il trionfo. C. Antonio, spenti Catilina ed i compagni suoi, ordina ai soldati lavino le spade, e si purifichino innanzi di entrare nel campo; e non, che altri Mario, e Silla t›insegneranno a Roma come le vittorie su i cittadini sieno eventi luttuosi da consacrarsi agli Dei infernali, quegli fuggendo dai tempii, e dagli altari, questi omettendo le immagini delle città vinte nelle guerre civili quando menò il trionfo. A Torino sì esulta quando si vince non già Catilina, bensì Garibaldi, non avversi ma amici, e si largheggia a danaro, e si promuove a gradi superiori.... Andiamo a Roma; che esempi di temperanza civile, e di grandezza italiana non ci può dare Torino.
A Roma cotesti sassi, la terra stessa ti diranno con quali arti si crei un popolo grande, e creato si mantenga; essi ti rammenteranno come il Senato romano dopo la disfatta di Canne per nulla sbigottito inviasse soccorsi nella Spagna; ed esposto allo incanto il terreno occupato dal campo cartaginese, mentre il nemico instava minaccioso a porta Capena, non pure lo vendono, ma sì no cavano il maggiore prezzo delle garose licitazioni: lì imparerai come coteste anime non meno eccelse, che sapienti, invece di empire il mondo con la confessione della propria fiacchezza reputano più disutile vincere co› soccorsi stranieri, che dannoso perdere in sè solo fidati quando in procinto di rompere la guerra a Pirro udirono come i Cartaginesi spedissero in ausilio di loro cento venti navi mandarono un legato per licenziarle, però che essi costumassero imprendere le guerre, che si sentivano capaci a sostenere senza bisogno di soccorsi; altrui. Oggi un Ministro della Guerra a Torino bandisce al mondo, che la Italia con quattrocentotrentamila uomini (non mai i Romani ne adunarono tanti!) nulla può senza il soccorso di Francia. Andiamo a Roma che maestra di grandezza non ci può essere Torino.
Anco altrove, che che calunniando la umanità si attenti sostenere la empia setta la quale nega in altrui la virtù, ch›è morte alla tristezza sua, anco altrove, massime a Firenze, puoi conoscere quanto sagrifizio in pro della Patria sappiano fare i popoli accesi nel santissimo amore che lei; ma in Roma questa virtù diventa febbre. I Deci padre, e figliuolo si profferiscono vittime volontarie alla salute di Roma; e lasciando del sangue se favelliamo di averi, che chiamano secondo sangue, e a troppi troppo più caro del primo, nota, nella seconda guerra punica gli universi cittadini chiesero, remossa ogni causa di esenzione, essere accettati a pagare il tributo, le donne dettero gli ornamenti muliebri ed i fanciulli, non potendo altro, le insegne della loro ingenuità la bolla e