Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

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Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi

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poco acconcia a comporre un corpo solo a cagione della sua lunghezza, e questo suo concetto prima e dopo lui parteciparono parecchi; tuttavia discorrendo dei luoghi adattati per instituire la capitale del nobile stato così argomenta:

      «Vari i pareri degli uomini intorno la migliore giacitura della capitale d’Italia, che taluno accenna a Venezia imperciocchè supremo bisogno della Italia paja levarsi a potentato marittimo. Venezia, essi dicono, sta riparata dai subitanei assalti, e favellando a mo› di mercante, deposito dei commerci della Germania orientale e punto più prossimo di Genova a Milano e a Torino; al mare si accosta per tratti lunghissimi di sponde: altri poi vengono dalla storia, e dalle tradizioni antiche condotti a Roma; Roma, affermano, sopra tutto mediana, destra alle tre grandi isole Sicilia, Sardegna, e Corsica, destra a Napoli; per ogni parte a un dipresso equidistante da cui la voglia offendere, o lo inimico si presenti dal lato di Francia, o dalla Svizzera, ovvero dall›Austria, che dove si accosta più distà centoventi, e dove meno centoquaranta miglia, ed ancorchè superate le Alpi la schermiscono due validissimi ripari il Po, e gli Appennini. Roma prossima alle coste adriatiche, e mediterranee con risparmio non meno che con velocità per via di Venezia e di Ancona può sovvenire alla tutela delle frontiere dell›Isonzo, e dell›Adige: per via poi del Tevere, di Genova e di Villafranca ella provvede di leggeri alla frontiera del Varo, e delle Alpi cozie: la sua posizione felice le concede abilità di offendere, mediante l’Adriatico, ed il Mediterraneo l’esercito nemico, il quale si attentasse traghettare il Po, od avventurarsi nell’Appennino senza avere preso la sua sicurtà dal lato del mare; ad ogni evento agevolissimo scansare alle rapine del nemico vincitore i tesori di Roma a Napoli, ovvero a Taranto; finalmente Roma è già: nè si conosce città al mondo la quale offra comodi quanti essa per costituire una grande metropoli; in favore suo la magnificenza e la nobiltà del nome; ed io per me penso, che quantunque lasci a desiderare qualche cosa, ella sarà certamente la capitale che gl’Italiani eleggeranno un giorno.»

      Questo nel volume terzo delle sue Memorie; nè meno arguto nei Ricordi di Santa Elena: «Se la Italia cessasse con Parma, Piacenza, e Guastalla, o vogliamo dire, ch’ella circoscritta dentro la valle del Po non possedesse penisole, allora Milano sarebbe la sua capitale necessaria, comecchè i periti reputino supremo difetto per lei che il Po non la difenda dalle ingiurie tedesche: ma dove gl’Italiani si componessero in un popolo solo allora Milano non potrebbe pretendere a diventare capitale, imperciocchè troppo prossima alle invasioni terrestri si troverebbe troppo lontana dalle spiaggie per provvedere alle marittime.»

      E quì nota lettore, che quando il sempre mai funesto ministro d’Italia Cammillo di Cavour non che non vietasse, consegnava le Alpi alla Francia avvertendo io, che dove questo accadesse bisognava pensare a trasferire altrove la capitale, molto più che smantellata la cittadella, Torino, e il Parlamento correvano pericolo di assaggiare le prime bombe francesi, ciò fu argomento di dileggio pel gregge servile: ora se Napoleone, il quale se ne intendeva, non consentiva a Milano di essere capitale d’Italia, pensa tu se lo avrebbe conceduto a Torino nella condizione miserabile in che l’hanno posta il savio Conte, e il suo più savio armento, che i ministri successivi si sono vie vie consegnato come le stime vive di un podere sfruttato, e tuttavia dura salvo dalla epizotia.

      Napoleone continuando a ragionare intorno alle diverse possibili capitali d’Italia arroge:

      «Bologna, unita in un solo corpo la Italia, sarebbe da preferirsi a Milano, dacchè ov’ella in caso d’invasione terrestre vedesse superate le frontiere montane, avrebbe sempre la difesa del Po, e pel suo sito, per le strade, e pei canali agevolmente, e presto comunica col Po, Livorno, Civitavecchia, i porti di Romagna, Ancona, e Venezia; come pure assai più di Milano si avvicina a Napoli.

      «E se la Italia terminasse col regno di Napoli, ed una parte di Sicilia, e di Napoli potesse riempire lo spazio fra terraferma e la Corsica, allora Firenze come centralissima potrebbe costituirsi meritamente capitale.»

      Donde tu apprendi chiaro, che al pensiero del gran Capitano non si affacciasse mai per capitale Torino. Che se l›autorità di un tanto uomo avesse mestieri di un po› di rincalzo io ci aggiungerei quella di Ubaldino Peruzzi, il quale ci ammaestrò da Torino non potersi governare la Italia, là dove questo personaggio non si fosse smentito dichiarando potersi governare la Italia da Torino finchè non si conseguisse per capitale Roma; e questo parve contradizione, conciossiachè se non può reggersi la Italia da Torino in modo assoluto, molto meno (anzi la difficoltà cresce) non avendo Roma, o standoci contraria: tuttavia queste che paiono a noi contradizioni, potrebbe darsi, che fossero profondità di consiglio a cui il nostro corto intelletto non arriva.

      Napoleone ai giorni nostri tanto più avrebbe a preferire Roma per capitale d›Italia quanto che adesso con le strade ferrate viene in certo modo diminuito lo spazio se giova; e se non giova si rimette come prima, potendosi in caso di bisogno rompere i ponti, turare botti sotterranee, buttare all›aria carreggiate. Roma quasi naturalmente diventa il nodo delle ferrovie, che dal settentrione mettono capo al mezzogiorno d›Italia, e se soltanto di strade militari Roma antica ne annoverava quindici ora potrebbero occorrendo con molta agevolezza moltiplicarsi non considerando più impedimento nè picchi impervii, nè torrenti indomati.

      In questo punto, forse non senza profitto, ricordo come le strade militari di Roma pigliassero tutte le mosse dal pilastro della fontana ove i gladiatori uscendo dal circo andavano a lavarsi le ferite; onde non parrà strano se cotesti sentieri contaminati nel loro principio di sangue schiavo diffuso per feroci diletti servissero poi per portare al mondo la servitù.

      Contro la opinione del sommo Capitano havvi (io non lo vo› tacere) quella del Goethe, la quale da noi si potrebbe agevolmente chiarire inane, imperciocchè sebbene egli abbia vaghezza di favellare di tutto, non però ci ne discorra bene del pari, compiacendo a certo talento, ai nostri giorni assai comune, di comparire onniscienti, il quale viene assai promosso dai nuovi metodi d›insegnamento, su di che aprirò un mio concetto, che ho sperimentato vero ed è questo: quanto lo ingegno nostro acquista di estensione altrettanto perde di profondità: ma i modi stessi che il Goethe adopera dimostreranno quanto poco caso abbia a farsi del suo giudizio. Ora ecco le sue parole estratte dal Viaggio in Italia, 25 gennaio 1787. «La terra dove giace l’antica capitale del mondo basta sola a richiamarci al pensiero la qualità della sua fondazione, dacchè subito tu ravvisi come costà siasi fermata una tribù di gente avveniticcia, condotta alla ventura da capi imperiti; il caso non la sapienza menò costà una mano di vagabondi, certo con tutto altro concetto che fondare il centro di vastissimo impero. I più forti tra loro dopo avere costruito in vetta a’ colli i palagi pei padroni del mondo lasciarono in balìa degli edificatori avvenire i paludosi canneti delle sponde del Tevere, e delle falde dei colli; così le sette colline non valgono a difendere affatto Roma dal lato della pianura; tuttavolta se a primavera mi venga concesso di visitare più accuratamente mi tratterò con maggiore lunghezza a dimostrarvi la positura pessima della capitale del mondo. Intanto io mi addoloro alla passione delle donne di Alba, le quali, dopo distrutta la gioconda loro città, furono condotte repugnanti a respirare le nebbie del Tevere, fermandosi sopra la povera collina di Cornelio, donde potevano ad ogni momento volgere gli occhi desolati al paradiso ch’elleno avevano perduto.»

      Rimpianti antichi e comuni in Italia, dei popoli, i quali tolti dai luoghi montanini furono avviati a vivere vita meno agreste nei piani; così fra noi Toscani Fiesole. Al Goethe poi, giovane allora e vago di venture, il tempo per considerare meglio non sovvenne, e coteste sue parole balestrate a vanvera rimangono piuttosto a detrimento della fama di lui, che pregiudizio a Roma, a cui i colli fecero sempre temuto schermo se consideriamo da qual lato movessero gli assalti al tempo del contestabile di Borbone, e a quello di che ora noi favelliamo. Molti hanno scritto delle grandezze di Roma, e noi stessi più volte secondo ci dettavano meraviglia ed amore; la sua miseria, come succede, vinse la sua grandezza di assai. Il Montaigne afferma che di Roma antica non rimane più il cadavere, anzi nè pure il sepolcro, avendo i suoi nemici seppellito anco quello; Lutero a sua posta la deplora come mucchio infelice di ceneri, le case ora cominciano dove un dì terminavano i tetti, e tante erano le macerie, che ingombravano ai suoi tempi le vie, ch’egli ne accerta averne vedute

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