Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

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Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi

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dei fati. Come no? Perchè lo neghereste prosuntuosi? Le mura di Alessandria non rimasero contaminate da presidio tedesco?

      Comprendo ottimamente avere a sonare le mie parole rudi; e giova appunto che sia così; gli adulatori dei popoli più funesti due cotanti, che quelli di un re, avvegnadio questi possa cessare da un punto all’altro, e allora morta la vipera spento il veleno, mentre il popolo forse dura fino alla consumazione dei secoli. Callimaco Esperiente nella vita di Attila racconta come il poeta Marullo avendo composto un poema (immaginate che poema!) in lode di cotesto Unno glielo presentasse a Padova fiducioso di premio, ma quando Attila seppe come costui lo facesse derivare da Dio, e lui medesimo salutasse Dio ordinò che poema, e poeta gittassero sul fuoco; ora il popolo nostro civile si approfitti dello esempio del condottiero barbaro emendandolo secondo la ragione dei tempi; lasci stare il fuoco, ma un tuffo nell’acqua ai suoi adulatori lo potrebbe dare. Io parlo per dire il vero, non per odio di altrui, nè per disprezzo, e se paleso animoso le gozzaie, mi muove studio di ovviare che intristiscano, anzi scompaiano. Fatuità somma credere, come oggi si costuma, che negando un danno possa torsi che sia: così quando schiamazzano la Italia è ricca confidano, che ciò empia le casse; ovvero la Italia ormai non può più disfarsi, e con questo pensano averla assicurata con nodo indissolubile: se simile insania non fosse per partorire funestissimi mali non varrebbe il pregio riprenderla, e nè anco indicarla, ma all’opposto io temo, che possa disfarsi perdendo occasione, che forse non si presenterebbe per più secoli a questa parte. Il passaggio in mezzo alle rivoluzioni assai si rassomiglia alla prova del fuoco, dove se ci era via a salvamento consisteva nel traversare del campione tutto, e di rincorsa, lo spazio incendiato. E bazza se allora le scottature erano poche! Se si fermava un’attimo, di lui non rinvenivi nè manco la cenere. Nei primi tempi delle rivoluzioni molti interessi laceri, o coperto, o palese travagliano lo stato novello; e da per tutto vedi scompiglio: ora preme più che mai in questo periodo climaterico l’universale trovi qualche compenso ai patimenti inevitabili; se gli assottigli il pane e tu ministragli copia più larga di libertà; se esigi piamente spietato il tributo di sangue, e tu mostra, ch’egli è per francare la Patria dalla dominazione straniera; la contentezza futura fa toccare con mano, che uscirà dal seme del disagio presente; i membri sparsi di un popolo ridotti come fratelli in una famiglia sola non pure soddisfano al precetto della religione, non pure all’ultimo provvederanno alla pubblica ed alla privata economia, ma altresì acquisteranno la potenza in ogni tempo necessaria, non già (Dio ne guardi!) ad offendere altrui, sì bene a difendere noi stessi. La divisione nostra risponde al Tedesco confitto nella Venezia, allo Spielberg, alle verghe, alle forche, alle fucilazioni, e forse, più amaro che questo, agli strazi quotidiani della gente galla.

      Nello stare strettamente uniti è posta la salute d’Italia; nè la pena di Beltramo dal Bornio, che per avere con arti scellerate diviso il figlio dal padre il Dante immagina vagolare per lo inferno, con in mano il capo tronco dal suo corpo la reputo sufficiente a cui intenda separare parte d’Italia dalla Italia. Se mi mostro, e sono implacabile contro colui, che la scemò a settentrione non meno irrequieto per quanto io valga, inchioderò nella infamia chi la menomasse a mezzogiorno; molto più, che questi non potrebbe nè anco allegare in discolpa il pretesto della necessità: non a dividere pertanto, bensì per istringere io muovo parole, persuaso, che la compagnia non dura fra genti con varia ragione aggravate; meglio vale, anzi unicamente vale, che il troppo carico dica: «io non ne posso più, fratello vienmi in aita;» che infellonirsi tacendo, e buttare via dalle spalle la soma con iattura di tutti.

      Noi tutti della famiglia italiana possediamo in copia vizi e virtù sovente diversi, qualche volta contrari, mettiamo in comunella ogni cosa; nelle mutue virtù ci educhiamo, dei vizi scambievoli emendiamoci. Piacemi dirlo: avendo per quanto mi fu dato ricerco la natura del popolo torinese io lo trovai onesto, e più lo era prima che l’alito corruttore del Cavour ci soffiasse sopra; nel commercio singolare, invece, che presuntuoso confessa sentirsi d’ingegno inferiore, e chiede che tu lo chiarisca; se non che la moltitudine delle parole gl’introna lo intelletto peggio, che i tamburi gli orecchi; le immagini lo abbarbagliano, lo sgomentano i tropi; teme i farabulloni lo scarrucolino, i parabolani lo abbindolino, ed ha ragione; chiede definizioni esatte, argomenti precisi; insomma con la sua gamba tu regola il tuo passo; e se lo fai ti si professa grato: il concetto compreso egli si mura dentro il cervello col gesso da presa: forse fie l’ultimo a cessare fede nel governo monarchico, ma cessata ch’ei l’abbia non valgono ganci a ripescarla. Alle amicizie nè facile, nè subito; non ti trabocca giù il suo liquore cordiale da empirtene il bicchiere, e allagarne la mensa, ma se te ne versa mezzo, e’ lo fa per dartene il rimanente un’altra volta: forse, almeno io provai così, con veruno uomo al mondo possiamo durare tanti anni amici come co’ Piemontesi, e senza, che una nebbia sola venga ad offuscare la lunga amicizia: liberali del proprio non mi parvero troppo, ma nè anco costumano pigolarti attorno per avere del tuo; ossequiosi per abito, non per viltà; tenaci dell’oggi, previdenti del domani, e perchè in un concetto solo io stringa quello, che potrei forse stemperare in molto, i Piemontesi possiedono a capello le qualità capaci a guarire noi dai vizi del rilassamento, della incostanza dei propositi, della fatuità delle affezioni, dell’abbiosciatezza in ogni ufficio onde si compone il vivere civile.

      Tuttavolta la prosunzione collettiva nel Piemontese occorre, e di molto; gli viene dai suoi maggiorenti interessati a fomentarla: gliela inocchiano i Giornalisti venduti; gliel’aizzano i Moderati consenzienti che altri divori, ed opprima a patto che possano rosicchiare essi, ed opprimere di seconda mano, nè trovo verso migliore a farla cessare, che uscire da Torino trasportando la sede del governo a Roma. I Torinesi per altra città non consentirebbero, o a malincuore consentirebbero; per Roma sì; di vero quale città italiana potrebbe stare a petto di Roma per magnitudine di memorie antiche, e per presagio di futura grandezza? Il popolo di Torino, certo finchè cotesta città resti capitale ne sfrutta il benefizio e ne gode, ma si è persuaso, che così non può durare, e talora udii da lui medesimo esporne le ragioni: certo verranno alcune industrie a patirne, ma le sono di quelle, che non fanno ricchezza permanente, bensì transitoria: anzi pure di quelle che servono più presto a corrompere le industrie civili, che ad avvantaggiarle, come locande, osterie, e più o meno onesti instituti, ed anco disonesti addirittura, e turpissimi; il sapore di siffatte industrie noi sopra gli altri conosciamo in Toscana, dove un dì concorrevano forestieri a portarci i vizi, ed i catarri loro. Compensi chiederanno i Piemontesi certamente, ed anco non li chiedendo li meritano, nè sembra arduo accordarli, conciossiachè paia non pure utile ma necessario convertirla in gagliardo arnese di guerra per opporla in ogni caso a qualunque irrompesse giù dalle Alpi nemico; e questo a cagione della scoperta fatta dal Conte di Cavour quando orava in Parlamento per cedere Nizza e Savoia, la quale fu che i paesi si difendono meglio allo aperto in pianura, che non per le angustie delle forre, o dalle alture… anco di queste a noi toccò udire! Nè udire soltanto, ma lodare con plausi, e confermare coi voti! Reverenza dunque, gratitudine, e compensi al popolo piemontese, e a Torino; fratello sia, e sopra tutti onorato, come quello, ch’ebbe la ventura di affaticarsi sopra gli altri per la Patria, e per la Libertà; non signore, non sopracciò, nè egemone: in questo intorandosi perderebbe ogni merito, porrebbe a cimento la salute pubblica, e risoluti non lo patiremmo noi opponendo le nostre forze, fin quì insuperate, di repulsa alle invaditrici sue; e perchè cessi il sospetto in noi, l’uzzolo in lui, in entrambi lo screzio della male auriosa egemonìa urge stabilire il nostro regno a Roma.

      Senza capitale un grande stato non può stare unito; ella ha da essere come un cappio il quale senza stringere troppo, o stringere a casaccio ordini le forze del paese per la difesa prima, e poi per la massima prosperità interna accordandole armonicamente sia dove tendono ad assimilarsi, sia nello invincibile screzio.

      Veramente io non ho letto la storia di Gengis-kan, la quale pure fu raccolta circa tre quarti di secolo dopo la morte di lui, ma l’avessi pur letta io porrei mediocrissima fede alle quarantamila, o cinquantamila teste gittate nei fondamenti di Samarcanda come pietra angolare a costituirla capitale; che ferocissimo ei fosse non si contrasta, ma sagace altresì era molto, tanto che il Gibbon ebbe a trovare non poca corrispondenza tra il codice composto dal Locke per la Carolina, e quello di Gengis-kan! Ad ogni modo io credo, che cotesto si abbia, se successe, intendere per simbolo, che molti voleri, come molti interessi devano concorrere a stabilire le

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