Top. Albertazzi Adolfo

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Top - Albertazzi Adolfo

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style="font-size:15px;">      Quando rinvenne, Mario vide che il sole splendeva. Ma aveva l'impressione di non poter più muoversi. Con un terrore folle si sforzò ad alzarsi in piedi, e alzatosi gli parve di sentir il sangue rifluire per ogni vena e d'essere leggero leggero.

      – Andiamo via! corriamo a casa! – gridò volto ad Aldo.

      Aldo non si mosse. Teneva il capo a terra, contro il braccio sinistro; tendeva l'altro braccio stringendo in mano le penne del pavone.

      E Mario gli si avvicinò, lo chiamò più forte.

      Non rispose.

      Tendeva il braccio destro, irrigidito, quasi volesse rendere al fratello le penne del pavone che il fulmine gli aveva lasciate intatte nella mano.

      LA FIUMANA

      Che gli asini camminando più o meno piano per la strada maestra si provino a prendere ogni viottola che scorgono di qua e di là, si capisce. La strada larga e bianca, precorrente senza limite visibile, suscita in loro l'idea e il panico dell'infinito; e poichè sanno per esperienza come da colui che trasportano e che li guida e bastona ci sia da aspettarsele tutte – e non sarebbe da meravigliare neppur il proposito, in lui, d'andare all'infinito – essi dalle viottole laterali han l'illusione o la conoscenza o la speranza di un termine prossimo, e tentano rivolgersi a quello.

      Più difficile è spiegare perchè anche l'asino bennato oppugni a voltar indietro pur nella più larga e più piana strada. Ecco. Il prudente auriga tira dalla parte destra fin quasi al limite del fosso, indi tira a sinistra con tanta energia che la bestia è costretta a piegar contro la stanga il collo, la testa, la bocca aperta dallo spostamento del morso, e, per esprimer meglio il suo volere, il padrone rialza e riabbassa in fretta il randello, sì che la battuta groppa si addossa, rintronando e dolorando all'altra stanga – e, nossignori, non cede; piuttosto che cedere l'asino va inesorabilmente nel fosso di sinistra col biroccino e chi c'è sopra. Perchè? Forse per amor proprio? punto di onore? dignità personale? In tal caso bisognerebbe supporre a questa ostinazione, a cocciutaggine così pericolosa, un ragionamento degno d'un uomo di carattere quale ce n'è pochi, specie al giorno d'oggi. – Ah tu che mi sfrutti mi hai dunque attaccato al biroccino non per bisogno, ma – poichè vuoi tornar indietro – solo con l'intenzione di farmi faticare e di bussarmi? Ebbene, no! neanche se io debba tornare alla dolce stalla, io non volto! Preferisco pungermi alla siepe, rompermi una gamba, fiaccarmi l'osso del collo nel baratro. Non volto: no, no e no!

      E che tale o simile ragionamento non fosse da escludere lo dimostrerebbe un fatto: che laggiù, quando sia rimasto in piedi o risorga, l'asino si mette subito a brucar l'erba della sponda. L'ostinazione cieca non gli permetterebbe di vederla, l'erba: la stizza invece, che nelle persone intelligenti non toglie il lume degli occhi e passa presto – appena hanno avuto sodisfazione – , gli lascia dire tra sè: – Adesso che l'ho vinta io, sono contento. Mangiamo!

      Ma quand'anche questa presunzione intellettiva nei ciuchi fosse esagerata, l'ostinazione loro sarebbe sempre più agevole da intendere, psicologicamente, che l'ostinazione dei cavalli.

***

      Qualche anno fa venne di moda il negar l'intelligenza al cavallo, o – nella reazione ad ogni ammirazione del passato – per contrasto al Buffon e all'Alfieri, o per consenso al grande – allora – e nuovo Mirbeau, o per incredulità delle esperienze di Elberfeld, ove dicevano che un certo cavallino eseguiva esercizi d'aritmetica coi piedi, i quali oggi nemmeno usan più i poeti agli esercizi della prosodia. E si chiamava stupido il «più nobile compagno dell'uomo» perchè è ombroso e perchè ha lo sguardo velato: come se l'adombrare non potesse indicar il prevalere della facoltà fantastica su la fredda ragione, che è indizio di genialità, e come se non ci fossero stati grandi uomini, scienziati o poeti, non solo con velato sguardo, ma con occhi morti del tutto.

      Un fenomeno però della razza equina varrebbe meglio a giustificarne i detrattori: il restio. Quale maggiore stolidezza, se volontaria? Fermarsi a un tratto senza perchè manifesto; resistere a ogni stimolo, a ogni esortazione più carezzevole, a ogni più duro castigo: lì, immoto con la testa china, proprio a mo' degli asini malnati, e talvolta con il di dietro alzato a springar calci in ricambio delle frustate, dei pugni su la testa e dei calci nella pancia che l'uomo, per diritto di ragione e di padronanza, elargisce all'animale, indarno.

      Tale pervicacia, a udir il contadino o il birocciaio alle prese con essa, a udirne, tra le bestemmie e gli oh! e gli uh! e i va là! gli epiteti che tempestando e infuriando rivolge all'animale suo (carogna! – vigliacco! o vigliacca! – ignorante! etc), non sarebbe da giudicare appunto che uno stolido capriccio. Ma la scienza, dopo parecchi secoli da che si han cavalli restii, scoperse che il fenomeno non andava e non va chiarito moralmente, e ne accertò la causa fisiologica e patologica.

      Si tratta di un disturbo funzionale, nervoso, psicopatico; di un morboso potere inibitorio che improvvisamente impedisce l'atto volitivo del correre. E se è così, nè vi ha dubbio che non sia così, quale passione, mio Dio!, quale martirio! Altro che pungersi alla siepe per l'ostinazione d'andar nel fosso! Pensateci. Pur ammettendo che gli manchi affatto l'intelligenza, non negherete che il cavallo ebbe dalla natura l'esser generoso. Quanto può, dà. Ora, l'accesso del male a che drammatico doloroso intimo conflitto lo condanna! Pensate! pensate!.. L'istinto lo porterebbe alla corsa senza freno, al galoppo fin che gli basti il respiro, e il misero non può più muoversi!; la natura l'ha creato sensibile ai richiami della voce, al tocco delle redini, al dolore delle frustate, e deve star lì immoto, inchiodato, a udir il padrone gridar come una bestia terribile, a ricever le percosse, a tremar a nervo a nervo, a bagnarsi di sudor freddo, senza voce, senza maniera di svelar il suo martirio, di chiedere pietà – non posso più correre! non posso più andare! – ; veder davanti a sè aperta, libera, la strada in cui gli è pur così grato superar i fratelli o seguirli, e aver addosso, intanto, l'apprensione orrenda di non poter più dar un balzo e avviarsi: mai più! Un cavallo! Non sarebbe – dite – una pena atroce quand'anche gli mancasse affatto l'intelligenza? E gli mancasse davvero! Soffrirebbe meno.

      Invece…

***

      Cenzo Dimondi è ancor vivo e sano, e narra volentieri la storia del suo Baio.

      Se capitate alla bottega – tre chilometri oltre Pedriolo, su la destra del Sillaro – ove con Sali tabacchi maiale e altri generi egli vende, fra gli altri generi, vin buono, bevete un bicchiere con lui e fatevi ripetere il racconto: non mi accuserete dopo d'averci introdotto aggiunte sentimentali per renderlo più vero.

      – Un cavallo, che i miei ragazzi chiamavan Baio, era la mia delizia – narra Cenzo Dimondi. – Sano, fido e di tanto sentimento che non sopportava nemmeno lo schiocco della frusta. In due mesi da che l'avevo comprato, non mi aveva recato un torto, mai. Quando, un giorno di settembre, venivo da Bologna. Vicino a casa vidi che doveva esser piovuto da poco e che in montagna il cielo s'abbuiava. Tornare indietro, al ponte, e allungare il viaggio per non attraversare il fiume a guado, al solito? No: il fiume non dava segno di cresciuta, nè io potevo immaginarmi che in montagna alta ci fosse stata intemperie. Senza sospetto di quel che stava per succedere calai dunque dalla riva, per la carraia che lei vede là dirimpetto. E il cavallo, tranquillissimo, taglia il primo raggio d'acqua; passa la secca; rimette le gambe nella corrente più larga; tranquillo tranquillo avanza fino a metà e… si ferma.

      Lei dice: – un capogiro. Ma col capogiro i cavalli, nel fiume, mi si eran sempre mostrati diversi. Dubitano un poco e basta eccitarli un poco. E lui. Baio, eccitato con la voce, non si mosse.

      Non giovando nè le parole nè lo scuotergli addosso le redini, lo tentai con la frusta. Niente. Nessun dubbio più: era restio! Io sapevo anche allora che il restio è quasi una paralisi che dura dieci minuti, un quarto, fin mezzora. Bisognava pazientare, attendere. Ma la mia donna di qui, dalla bottega, mi vide col biroccino fermo in mezzo all'acqua

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