Top. Albertazzi Adolfo

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Top - Albertazzi Adolfo

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a frustare, prima senz'ira, poi senza misericordia: sopra, sotto, nelle gambe, nel collo, nella testa; la pelle s'enfiava a cordoni. E niente, come se battessi lei, che non c'era. E gli urli della donna e dei ragazzi diventarono più acuti. – Si sente la romba! Scappa, Cenzo, per amor di Dio! – La fiumana, babbo! la fiumana!

      Già, avrei dovuto scendere; abbandonar cavallo e biroccino; perderli, chè la piena qui, sboccando dal letto stretto e fondo, rovescierebbe e si porterebbe via un paio di buoi con il carro. Ma mi ero impuntato anch'io. Se il restio è un male – pensavo – , un male più grande lo scaccerà. E mi misi a picchiare il cavallo col manico della frusta tenendolo a due mani. Botte da accopparlo. E niente; come niente!

      Disperati, mia moglie e i miei figliuoli, che mi vedevan me là in mezzo e vedevan la piena che arrivava arrivava, ora chiamavano aiuto. – Aiuto! aiuto! – Aiutarmi chi? Non c'eravam che noi, in questa parte, a quel tempo. Aiutarmi in che modo?

      Mentre bastonavo e bastonavo, da matto, voltai l'occhio… Mi si drizzan i capelli in testa anche adesso a ricordarmene; mi si gela il sangue nelle vene. L'acqua torba raggiungeva la chiara, dilagava furibonda; le onde…

      Stavo per diventar matto davvero; per saltar giù dal biroccino. Se salto giù, mi annego. Le onde tra pochi momenti erano alle ruote, le dico!

      Gridai: – I miei figliuoli! – E… Dio! Dio! Il cavallo si slancia; in due, tre balzi trascina il biroccino fuori dell'acqua, si avventa attraverso la secca e su, di galoppo, per la riva: su! su! siamo nella strada. Ah!.. Salvo! Come dentro a un sogno vedo le facce bianche della mia donna e dei miei figliuoli che mi guardavano senza più voce; E qui, davanti alla bottega il cavallo, Baio, mi stramazza. Morto.

      A questo punto Cenzo Dimondi non si vergogna a raccogliere due lacrimoni nel fazzoletto. Indi seguita:

      – Baio, un cavallo di tanto sentimento, attaccato dal male non sentiva più nè parole, nè frustate, nè bastonate. Ma aveva capito il pericolo: non dico il pericolo di me o di lui: un pericolo spaventoso, quasi di tutti, di tutto il mondo!, e l'aveva capito dalle grida dei miei, dalla romba lontana, dallo squasso vicino, dall'urlo mio. E volle vincere il male che l'inchiodava, a ogni costo. Lo vinse. Ma gli crepò il cuore.

      Dopo un'altra pausa Cenzo Dimondi conclude con una dimanda:

      – È così o non è così?

      A SANT'ELPIDIO

      – Ed Elena Baschi, così intelligente, così bella?

      – Sempre lassù, tra i monti, a Sant'Elpidio, dove andò maestra la prima volta.

      – Maritata?

      – Nemmeno.

***

      La prima volta che Elena Baschi andò a Sant'Elpidio fu in un nuvoloso pomeriggio, al finire di settembre.

      Lungo, interminabile il viaggio. La strada procedeva a salite e discese tra siepi alte, al di là delle quali non si scorgevano, a quando a quando, che i soliti campi alberati e arati, deserti; e per le frequenti svolte anche la vista, dinanzi, veniva spesso impedita.

      Gravavano tedio e silenzio. E se la siepe diradava o cessavano i filari degli olmi, appariva, a sinistra, la costa montana, che nebbiosa, senza cime, escludeva l'orizzonte con limite uguale e dava pur essa il senso di una solitudine lunga.

      Finchè, dopo una calata, la strada svoltò ancora, improvvisamente… Oh! Meraviglioso! Allo sguardo si aperse, libero e vasto, un meraviglioso scenario. Il passaggio dalla uniforme e scarsa veduta a quell'inatteso spettacolo fu così repentino che ad Elena sfuggì un'esclamazione di gioia.

      La strada rasentava la riva del fiume, che precipitava a picco, profonda; e il fiume, svelato di un tratto, spaziava bianco nel greto, brillava a raggi intermittenti nell'acqua: la sponda opposta declinava verde, folta, sparsa di case; e laggiù, dove le rive si distendevano a valle era, da una parte, la chiesa, bianca, grande, col rosso campanile e una fila di pioppi; e dall'altra parte, una tenera frescura di erba, e tra gli alberi festonati di viti, in gruppi, le case del villaggio. Congiungeva le rive un nuovo ponte a begli archi; sorgevano nello sfondo le montagne, prima azzurre, quasi a respirare nel cielo sereno; poi svanivano in una luce cinerea.

      – Sant'Elpidio – disse il vetturale.

      E in quella dilatata ampiezza, dall'una all'altra di quelle chiare e ariose rive, correva, come per affrettarsi avanti il morir del giorno, una vita possente di suoni e di voci.

      Contadini che incitavano i buoi; donne e ragazzi che si chiamavano e rispondevano; muggiti di vitelli; canti di galli; densi cinguettii di passeri. Quindi il tinnire di un'incudine. Quindi, anima che raccoglieva mille anime e interrompeva mille echi, più forte e vibrante si diffuse il suono delle campane.

      Elena Baschi, commossa, pensava.

      Con l'orgoglio di bastare finalmente a sè stessa, con la superiorità che le prometteva la cultura della Scuola Normale, con la fiducia di aver a compiere una nobile missione non l'attendevano forse lieti giorni in così mirabile luogo? Non potrebbe sperare anche là d'esser degnamente amata? Gli otto mesi da trascorrere a Sant'Elpidio non sarebbero almeno, per lei, come la vigilia di una festa avvenire, la prova meritoria della felicità avvenire?

***

      Prese a dozzina la nuova maestra una vedova, vecchia di forse sessant'anni, piccola e grassa; col viso grinzoso, cotto dal sole. Gli occhi vivi; non brutta, e ridente. Ma doveva essere avara, perchè il vitto, abbondante e buono ai primi giorni, andò scemando in quantità e qualità; e nei modi la vecchia dava a vedere una rozzezza inasprita dai pregiudizi e dalle costumanze incivili. Così, faceva che l'ospite desinasse e cenasse sempre sola, sebbene la tavola fosse apparecchiata per due; per l'ospite e per il figlio Agostino, il tiranno.

      Questi mercanteggiava in bestiame; ai paesi e alle fiere del monte e della pianura. Era bell'uomo e villanzone. Incontrandosi con Elena, ai primi giorni, si toccava appena la falda del cappello, senza dir nulla; di poi, disse, senz'altro complimento:

      – La saluto, maestrina.

      D'una volgarità stupida nei brevi discorsi, i suoi motti tendevano sempre ad allusioni sensuali. E avvolgeva Elena d'occhiate lunghe e fredde, da mercante speculatore e da buongustaio mutevole.

      Non li temeva essa, quegli occhi; l'assicurava la superiorità dell'intelletto e dell'animo.

      La turbavano, al contrario, le occhiate della madre. Quella vecchia espansiva e gioconda con tutti gli altri, aveva mutato aspetto con lei; non dissimulava nello sguardo come una preoccupazione continua, una segreta diffidenza, un'antipatia a stento repressa. Perchè? Elena sdegnava interrogarla.

      Il disgusto però le crebbe quando s'avvide che quella osservazione ostile la seguiva anche fuori di casa, da altri; fuori, divenne anzi sgarberia manifesta, dispettosa insolenza. La ragazza della bottegaia l'aspettava su la soglia della bottega per voltarle, vicina, le spalle; la moglie del medico condotto o fingeva di non vederla o rispondeva al saluto chinando appena il capo e fuggendo; la sorella del sarto sorrideva con ironia maldestra; l'ostessa… Che avevano, insomma, coloro? Che aveva fatto, lei, a quelle donne?

      Quando potè saperlo, rise. Ingenuamente la madre di una scolaretta le disse un giorno:

      – Per quassù lei è una maestra troppo giovine e troppo bella!

      Ah ah! Ecco che cosa avevano! Gelosia; invidia; timori d'oscuri pericoli.

      Via! Stessero pur tranquille, tutte! Non mirava, no, a rapire l'amante a nessuna, il marito a nessuna, il figliuolo

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