Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I. Amari Michele
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Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I
INTRODUZIONE
Non ostante la cultura delle colonie musulmane che tennero la Spagna e la Sicilia e dettero tante parti di civiltà all'Europa, egli è avvenuto che la storia loro rimanesse per molti secoli oscura e trasandata, quasi di popoli barbari. E ciò per cagione che i cronisti latini e greci del medio evo poco ne scrissero; che le opere arabiche andarono a male quando i Musulmani sgombravan da quei paesi; e che quel tanto che ne fu serbato in Affrica o in Oriente, non potea passare, senza difficoltà grandissime, dalla società musulmana alla società europea. Quegli ostacoli, superati un po' dal decimosesto al decimottavo secolo, or si vincono felicemente. La tolleranza filosofica; il genio degli studii storici; i viaggi; il commercio; le dominazioni europee in alcuni paesi di Musulmani; la influenza esercitata sopra altri; le accademie asiatiche istituite sotto varie denominazioni, in Inghilterra, Francia, Alemagna, Stati Uniti d'America e stabilimenti inglesi in India; i giornali periodici di esse; lo zelo di raccogliere manoscritti, monete antiche e monumenti; l'agevolezza ad apparare le lingue orientali; le frequenti pubblicazioni di libri arabici, han reso ormai praticabili molte ricerche tentate invano dalle passate generazioni. Così qualche opera pregevole rischiara già la storia dei Musulmani di Spagna, e sappiam che altre se ne apparecchino di maggior polso. Così gli annali delle Crociate si compiono col favor dei cronisti musulmani. Così escono alla luce o s'intraprendono di continuo tanti altri lavori storici su l'Affrica, su l'Egitto e su varii Stati dell'Asia anteriore.
La genuina tradizione dei tempi musulmani si dileguò di Sicilia al conquisto normanno, insieme coi dotti ch'emigravano in Affrica, in Spagna o in Egitto. Se ne andavano con essi i libri; o erano distrutti tra le guerre del conquisto nell'undecimo secolo; tra le sedizioni dei Cristiani nel duodecimo; tra le disperate ribellioni dei Musulmani nei principii del decimoterzo: ancorchè la Sicilia non abbia dato, nè anco in que' tempi, lo scandalo d'un auto-da-fè di manoscritti arabici, come quello del cardinal Ximenes che ne fece ardere ottantamila su la piazza di Granata, mentre Colombo scopriva l'America. Il fatto è che dalla metà del decimoterzo secolo alla metà del decimoquarto, rimanendo tuttavia in Sicilia, come n'abbiam prove, qualche notaio che intendesse gli atti distesi in arabico e qualche Giudeo che traducesse opere dei medici arabi, tal cognizione di lingua non servì a tramandare memorie storiche, ma soltanto a propalar qualche errore degli Arabi o dei traduttori. Così io penso leggendo nelle croniche latine di Sicilia a quel tempo, che dopo i casi del buon Menelao re d'Italia e di Sicilia, i Greci, mandati da Eraclio imperatore di Costantinopoli, si fossero impadroniti della Trinacria; le avessero posto nome di Sicilia, da due voci greche l'una delle quali suona fico e l'altra olivo; e che poi, ribellatosi Maniace luogotenente di Eraclio e spento a tradigione dalla corte bizantina, il figliuol suo, per vendetta, avesse dato l'isola ai Saraceni di Tunis, l'anno di Maometto centonovantotto, e ottocento ventisette di Cristo.1 Erano i fatti di venti secoli compendiati in una vita d'uomo. Quella falsa etimologia dal fico e dall'ulivo, ignota ai Greci e ai Latini, trovasi appunto negli scritti d'Ali-ibn-Katâ' e d'Ibn-Rescîk, i quali vissero in Sicilia nell'undecimo secolo. Si incontrano poi sovente negli autori musulmani somiglianti anacronismi sugli imperatori romani, e si vede sempre citato a dritto o a torto il nome d'Eraclio, che sedea sul trono vivendo Maometto. Indi mi è paruto probabile che la tradizione detta di sopra, tutta quanta ella è, fosse derivata da unica sorgente arabica. Se altre notizie vi erano su la dominazione musulmana, i cronisti siciliani, secondo la ignoranza e pregiudizii della età loro, le doveano trascurare, o volontariamente sopprimere.
Dopo tre secoli in circa, ristorandosi gli studii storici in Italia e non rimanendo la Sicilia addietro dalle altre province, Tommaso Fazzello da Sciacca (nato il 1498, morto il 1570) rigettò le favole di Maniace; ritrovò un filo della tradizione bizantina nel MS. di Scilitze allor noto sotto il titolo di Curopalata; e, innestatovi quel po' di tradizione musulmana che gli potea fornir Leone Affricano e qualche altra notizia incerta, scrisse, nella sua nobilissima storia generale di Sicilia, due capitoli così così su la dominazione musulmana.2 Lasciovvi una lacuna, a riempir la quale si affaticava Antonino d'Amico da Messina (morto il 1641) riportando dall'Escuriale pochi squarci di Abulfeda e di Sceaboddino (Scehâb-ed-dîn-'Omari) voltati in latino, alla meglio o alla peggio, da Marco Dobelio Citeron, professore d'arabico in Spagna: i quali rimasero inediti; ma Agostino Inveges da Sciacca (1595-1677) tradusse in italiano la traduzione e infilzolla nei suoi Annali di Palermo.3 Giambattista Caruso da Polizzi, sopravvenuto quando la critica e la diplomatica davan più salda base alle ricerche storiche, pubblicò, nel 1720, primo tra i suoi importanti lavori, la Raccolta degli scrittori dell'epoca Saracenica in Sicilia: dove, alle memorie già citate e ad altre di minor nota, aggiunse il testo arabico della cronica di Cambridge,4 procacciatogli con la versione latina da un dotto inglese: i fogli del qual testo si stamparono a Roma, mancando in Sicilia i caratteri e chi li sapesse leggere.
Ove si consideri come gli eruditi siciliani del decimosettimo e decimottavo secolo non fossero stati secondi a que' di alcun'altra provincia italiana o straniera nello studio dei patrii annali, forte si maraviglierà che niuno tra loro avesse pensato di apprendere l'arabico. E pur in quella stagione a Roma, in Toscana, in Lombardia si facea quel che oggidì ammiriamo in Alemagna, Francia e Inghilterra: si raccoglieano con ardore i MSS. orientali riportati da viaggiatori italiani; i missionarii della Propaganda di Roma studiavano le lingue orientali; si pubblicavano appo noi libri in arabico e in siriaco; si formavano musei asiatici; si compilavano opere di gran dottrina sul Corano, e grammatiche e dizionarii arabici, per esempio quello del Giggei: fiorivano, in somma, gli studii orientali al segno, che il Renaudot, dando fuori nel 1713 la Storia dei Patriarchi d'Alessandria, la dedicò a Cosimo III de' Medici; confessando nella prefazione che nel corso del decimosettimo secolo gli orientalisti di tutta Europa non avessero avuto altro capitale che le opere uscite dai tipi di Firenze. Ma queste tornarono inutili alla Sicilia, perchè i progredimenti dell'intelletto difficilmente si comunicavano dall'uno all'altro sminuzzolo d'Italia, e più difficilmente valicavano il mare. Nè miglior frutto cavò la Sicilia dagli ardimenti di Francesco Maria Maggio da Palermo de' Chierici Regolari (1612-1686), missionario, il quale dopo otto anni di peregrinazione in Siria, Persia, Mesopotamia, Armenia, Georgia, tornò a Roma pratichissimo degli idiomi arabico, turco e georgiano; tanto che ne scrisse le grammatiche parallele, dedicate a papa Urbano Ottavo.5 Francesco Tardia da Palermo (1732-1778) pervenuto, non so come, ad avere una tintura di arabico, ne usò in opera di lieve momento, la edizione, cioè, d'una versione italiana di Edrisi, fatta dal maltese Domenico Macrì.6 Le illustrazioni sue di alcuni diplomi arabici dell'epoca normanna rimangono inedite; nè sembrano gran che. Morto immaturamente il Tardia, senza far discepoli, si ricadde in tale ignoranza di arabiche lettere, che una iscrizione cufica cubitale passò tuttavia in Palermo per caldaica e scolpita poco appresso il diluvio. Gli eruditi del paese, quando lor occorrea di interpretare qualche leggenda di lapidi o monete, più corta via non trovavano che di rivolgersi ad Olao Gerardo Tychsen professore di Rostock, il quale avea gran fama, meritata non credo, in quei rami di filologia arabica.
Tra tanta penuria, piombò in Palermo il maltese Giuseppe Vella, frate cappellano dell'Ordine Gerosolimitano, il quale con quel suo dialetto mescolato d'arabico corrotto e di pessimo italiano, potea comprender tanto dell'idioma degli Arabi, quanto un contadino di Roma intenderebbe Cicerone o Tito Livio senza avere mai studiato il latino; e, per giunta, il Vella ignorava i caratteri, nè li apprese che a capo di parecchi anni, da uno schiavo musulmano che vivea in Palermo. Digiuno d'ogni erudizione, ma furbo, baldanzoso, sfacciato, ciarlatano che testè facea mestier di dare i numeri del lotto, il Vella aprì nuova bottega: fabbricò due codici diplomatici in arabico, dicea, ma ne mostrava la sola versione italiana; dei quali il primo intitolò Consiglio di Sicilia, e vi finse il carteggio degli emiri dell'isola coi principi aghlabiti e fatimiti d'Affrica; il secondo, Consiglio d'Egitto, e lo disse raccolta delle lettere dei principi normanni di Sicilia, i quali, per passatempo, raccontassero tutte le faccende di casa loro ai moribondi califi fatimiti d'Egitto. Annali, geografia, statistica, dritto pubblico di due epoche, fasti
1
Veggansi: Bartolomeo de Neocastro, cap. LXXXIV; l'
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3
Tomo II,
4
Veggasi la Tavola Analitica, parte II, nº VII.
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6
Veggasi la Tavola Analitica, parte II, nº XX.