Leopardi. Federico De Roberto
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Basterà per il momento avere accennato a questi danni: quantunque essi non siano lievi, vediamo ora come altri se ne producano per un'altra, per una nuova ragione. Poichè egli antepone le illusioni alla realtà, non le tiene “per mere vanità, ma per cose in certo modo sostanziali, giacchè non sono capricci particolari di questo e di quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in ciascheduno.„ Dall'osservazione di ciò che accade in lui trae così un'affermazione generale: e certo l'identità dell'umana natura deve consentirci di estendere a tutti gli uomini ciò che è proprio ad uno di loro; ma questi uomini tanto simili sono pure tanto diversi che non se ne trovano due del tutto eguali; e il Leopardi non sarebbe singolarissimo se tutti attribuissero, come egli fa, tanta importanza alle illusioni. La capacità di considerare il mondo reale “un nulla„ e di preferirgli il mondo suscitato dalla fervida fantasia ed apprezzato dall'acuta sensibilità, è propria dei poeti: il sentimento poetico è appunto fatto di sensibilità e di fantasia. Tali doti portate dalla nascita fanno poeta il Leopardi; la loro esagerazione spiega la sua parentela con tutti gli altri poeti dolenti; ma l'indole sua si specifica perchè egli possiede un'altra dote eminente che col sentimento poetico d'ordinario non s'accorda, che anzi lo contrasta.
II. LO SPIRITO FILOSOFICO.
Tra la scienza e la poesia, tra la forza dello spirito e l'intensità del sentimento c'è d'ordinario opposizione e contrasto: gli uomini maggiormente impressionabili non sogliono essere i più riflessivi. Le due capacità si trovano tuttavia insieme unite in alcune anime che da questa unione riconoscono la loro potenza.
La facoltà che agguaglia i poeti e gli artisti agli uomini di scienza è l'immaginazione. Il Leopardi, componendo l'inno a Nettuno, ricomponendo il canto di Simonide, eccitando il Missirini a “render corpo e vita alle ossature e agli scheletri dell'antico teatro greco e romano„, fa opera simile a quella del naturalista che da alcuni frammenti fossili ricostruisce tutto l'ignoto essere vivente al quale questi appartennero. La concezione dell'ipotesi della quale lo scienziato si serve per ispiegare i fatti osservati è simile alla concezione poetica e romanzesca. La scienza delle scienze, la filosofia, è ancora più vicina alla poesia che non tutte le altre. L'importanza dell'ipotesi è senza fine maggiore in filosofia che non nelle scienze esatte: anzi, considerando i problemi massimi ed insolubili — l'origine, la natura, il fine della vita e del mondo — la filosofia riposa tutta quanta sopra ipotesi. E poichè l'ipotesi è opera di quella potenza immaginativa alla quale il poeta deve i suoi concepimenti, la parentela tra il poeta ed il filosofo è manifesta. “Abbi per cosa certa,„ dice lo stesso Leopardi, buon giudice, “che a far progressi notabili nella filosofia non bastano sottilità d'ingegno e facoltà grande di ragionare, ma si cerca eziandio molta forza immaginativa; e che il Descartes, Galileo, il Leibniz, il Newton, il Vico, in quanto all'innata disposizione dei loro ingegni, sarebbero potuti essere sommi poeti, e per lo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi filosofi.„ Filosofia e poesia sono ancora affini per questo: che molto spesso, anzi quasi sempre si esercitano intorno allo stesso oggetto: l'anima umana: “E ben sai che egli è comune al poeta e al filosofo l'internarsi nel profondo degli animi umani, e trarre in luce le loro intime qualità e varietà, gli andamenti, i moti e i successi occulti, le cause e gli effetti dell'une e degli altri„.
Ma questa affinità, sia grande quanto si voglia, non arriva all'identità; al contrario. Un poeta può rassomigliare molto ad uno scienziato e moltissimo ad un filosofo; ciascuno ha tuttavia i suoi particolari e indelebili segni. Per la potenza dell'immaginazione essi si somigliano; ma l'immaginazione è unita con la sensibilità nel poeta, con la ragione nello scienziato e nel filosofo. Facoltà propria del filosofo è, secondo lo stesso Leopardi, quella di “penetrare coi pensieri nell'intimo delle cose„; di “sciorre e dividere le proprie idee nelle loro minime parti„; di “ragunare e stringere insieme un buon numero di esse idee„; di “contemplare con la mente in un tratto molti particolari in modo da poterne trarre uno generale„; di “seguire indefessamente coll'occhio dell'intelletto un lungo ordine di verità connesse tra loro a mano a mano„; di “scoprire le sottili e recondite congiunture che ha ciascuna verità con cento altre.„ Più brevemente: il filosofo non considera i fatti nelle loro apparenze, ma ne misura il valore, ne esprime il significato e ne discopre le leggi.
Abbiamo visto che il Leopardi, a otto anni, è novellatore e poeta; ancora adolescente, quando gli altri non hanno finito di apprendere le lingue egli è maestro di filologia. L'opera sua è di vero scienziato: le sue emendazioni dei testi, le sue illustrazioni, i suoi commentarii, tutto il suo minuto ed acuto lavoro di critica, se è aiutato dall'intuito, dal “tatto quasi divinatorio„ del quale parla suo fratello Carlo, è pur dovuto principalmente alla potenza riflessiva della sua mente. Ma egli non si può contentare di questo esercizio; mira a più vasti orizzonti: dalle regole grammaticali passa alle leggi dell'anima. Già vedemmo come, osservata in sè stesso la preminenza delle illusioni e considerato che la natura umana è essenzialmente una, egli estende a tutti gli uomini quel che gli è proprio. Vediamo qualche altro esempio di questa sua attitudine ad astrarre e generalizzare. Un giorno, rivolgendosi ad un maestro perchè riveda l'opera sua, egli prova un senso di rimorso nel distoglierlo da altre occupazioni: il bisogno dei consigli e la paura di essere indiscreto vengono in contrasto; l'interesse proprio trionfa; dall'osservazione di questo fatto egli ricava una sentenza: “Veggo bene che io usurpo momenti che dovrebbero essere sacri a tutta la repubblica delle lettere „, scrive al Mai, “svolgendola da occupazioni utili all'universale letteratura, e ne ho rimorso; ma che debbo dirle? L'amor proprio è assai potente, e fa che si desideri per sè solo quello che si dovrebbe impiegare per il bene di tutti....„ Quando noi ci troviamo soli in un'opinione anche vera sprezziamo l'altrui opposizione; pure il dubbio di essere in inganno può tormentarci e una secreta voce dirci che l'ostinazione ci fuorvia; se noi non siamo filosofi ci ostiniamo o dubitiamo senz'altro; un pensatore come il Leopardi formula una legge della quale misura l'estensione: “Certo quel trovarsi solo in una sentenza vera fa paura, e a noi medesimi spesso la costanza pare caponaggine, la noncuranza degli sciocchi giudizi, superbia, il credere d'intenderla meglio degli altri, presunzione.„ Ancora: ripensando ad un nostro piacere passato, noi possiamo sentire che esso non fu tanto grande quanto poteva essere, e rammaricarcene; il Leopardi, in una condizione simile, esprime una verità: il pentimento di non aver goduto appieno, dice, ci grava l'anima
e il piacer che passò cangia in veleno.
Non occorre moltiplicare gli esempii. Il risultato è che in età quasi fanciullesca egli ha già “certezza e squisitezza di giudizio sopra le grandi verità non insegnate agli altri se non dall'esperienza, cognizione quasi intera del mondo e di sè stesso.„
Ma quest'abito filosofico così presto contratto grazie alla capacità indagatrice della mente, ostacola gli slanci del poeta. Guidati dalla comune potenza immaginativa, poeta e filosofo procedono per vie parallele; essi divergono obbedendo all'impulso particolare della loro natura. Il poeta vuol sentire: il filosofo vuol ragionare. La singolare capacità del poeta è di apprezzare le cose che l'immaginazione gli pone dinanzi: di vibrare, di fremere, di gioire, di spasimare; la singolare capacità del filosofo è quella di spiegare le cose che l'immaginazione gli rappresenta: di paragonare, di dedurre, di astrarre, di intendere. Certo, non è possibile al poeta sentire senza giudicare; nè al filosofo giudicare senza sentire; ciò spiega ancora la loro affinità;