Leopardi. Federico De Roberto

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Leopardi - Federico De Roberto

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href="#ulink_67283428-b58d-5557-99c3-8c6a11088d64">Indice

      Un terreno arido s'irriga, un albero che pende si raddrizza: l'arte corregge la natura. Quali mezzi furono posti in opera per modificare la pericolosa disposizione di Giacomo Leopardi? Parleremo a suo luogo dell'azione della famiglia: questo è il momento di narrare la sua educazione intellettuale.

      Con tanta smania d'azione, con tanta e tanto precoce capacità di vivere, il giovanetto recanatese passa i migliori anni dell'adolescenza sui libri. “Io sono andato un pezzo in traccia della erudizione più pellegrina e recondita, e dai 13 anni ai 17 ho dato dentro a questo studio profondamente, tanto che ho scritto da sei a sette tomi non piccoli sopra cose erudite (la qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato).„ Non soltanto la salute del corpo è rovinata; ma quella dello spirito è peggiorata. Il lavoro della mente diviene, a scapito dell'attività dei muscoli, il suo bisogno, il suo amore. Infermo, egli lavora ancora sei ore il giorno; e dice d'essersi così moderato “assaissimo.„ E oltre che l'eccesso, il genere stesso del suo lavoro mentale gli è pernicioso. Lo studio d'una disciplina esatta, di una scienza sperimentale, sviluppando il senso dell'osservazione reale, fomentando la nativa facoltà del raziocinio, avrebbe, se non soffocato, moderato almeno la fantasia; e se non aiutato, almeno non repressa la capacità d'azione. Egli studia invece quella filologia, quelle “spente lingue dei prischi eroi„ che lo segregano dal mondo moderno, che lo fanno vivere nel passato, che popolano il suo cervello di figure antiche e favolose. La sua fantasia è capace di dar corpo alle ombre, il suo sentimento s'infiamma per esse. Quando egli legge un classico, la sua mente “tumulta e si confonde„; quando legge Virgilio “m'innamoro „, confessa, “di lui.„ Abbiamo visto che rifà i canti ed eccita dentro di sè i sentimenti di Simonide, dei fedeli al nume del mare; reciprocamente: attribuisce i sentimenti suoi proprii a Saffo, a Bruto minore. Leggete le sue lettere: egli non parla d'altro che di scrittori greci e latini: di Omero, di Virgilio, di Callimaco, di Orazio: chiede notizie ai suoi corrispondenti di Giulio Africano, ne dà intorno a Dionigi e all'Eusebio del Mai; quando il dotto abate ritrova i libri di Cicerone della Repubblica si commuove sino a scrivere una canzone. E traduce la Batracomiomachia, due volte; la Titanomachia, gl'Idillii di Mosco, un canto dell'Odissea, un altro dell'Eneide; e ragiona delle Arpie, e compone tutto un libro sugli errori popolari degli antichi. Non si contenta di studiare e tradurre: se pensa di scrivere un romanzo storico, intende che debba essere “sul gusto della Ciropedia.„ Un simile proposito dimostra sino a che segno egli è lontano dal suo tempo. Quando egli porge l'orecchio alle voci che vengono di fuori, ode gli echi d'una lotta vivace: classici e romantici si accapigliano. Naturalmente egli è coi classici; lo farebbe ridere chi pensasse di ascriverlo all'altro partito. E nondimeno s'inganna.

      Classicismo e romanticismo non sono soltanto due scuole letterarie, ma due stati della coscienza e quasi due diverse qualità di anime. L'indole di chi ha seguito le tradizioni è calma ed equilibrata, o capace di frenarsi e di obbedire a certi consigli di moderazione e di prudenza, a certi precetti di ordine e di misura. Nature ribelli hanno sempre tentato di esprimersi liberamente; ma tanto forte è stata l'efficacia dell'insegnamento, che o si sono ultimamente piegate, oppure il loro esempio è rimasto senza imitatori. Altrettanto è avvenuto in politica: i tentativi di affermare i diritti dell'individuo contro le potestà consecrate dalle leggi secolari sono rimasti lungamente sterili. E la rivoluzione politica coincide con la rivoluzione letteraria. L'autorità dei maestri vien meno per quella stessa causa che distrugge ogni altra autorità nel consorzio sociale: la filosofia del secolo XVIII, tutto esaminando e tutto ponendo in forse, prepara una nuova era nel mondo; il primo romantico è il primo rivoluzionario: Gian Giacomo Rousseau. Ma le origini del romanticismo sono ancora più remote. La signora de Staël ha ragione di dire che la divisione della letteratura in classica e romantica si riferisce alle due grandi età del mondo: a quella che precedette e a quella che seguì lo stabilimento del cristianesimo. L'anima pagana, idealizzando la natura, aveva estrinsecato un certo tipo di perfezione e se n'era appagata; ma lo spirito umano, irrequieto indagatore, non poteva trovar sempre nella natura un pascolo adeguato; doveva anzi presto o tardi riconoscere che il mondo della coscienza è senza fine più vasto e ricco che non il mondo delle cose. Questo scontento della realtà, quest'ansia di novità, questa specie di ripiegamento dell'anima in sè stessa, furono in grandissima parte opera della predicazione cristiana. Se l'ideale classico, cioè pagano, continuò ad essere onorato lungo tempo dopo che la dottrina di Cristo mutò la faccia del mondo, ciò dipese in gran parte dalla prevalenza della razza latina, nella quale il paganesimo, come serenità di sentimento, come ludicità di visione, era quasi connaturato. Quel che c'è di triste e di dolente nella fede cristiana era quasi inaccessibile a una gente vissuta sotto cieli chiari, in riva ai mari tranquilli, sopra terre feconde quasi sempre sorrise dal sole. Inconsapevolmente essa professava il nuovo culto con le forme antiche; i vecchi riti e i vecchi miti sopravvivevano: un giorno, quando la rinnovazione dell'ideale pareva compita, il paganesimo rifiorì e il classicismo trionfò con la Rinascenza. Ma la nuova fede, intanto, penetrava più a dentro fra la gente del Nord. Gli uomini vissuti sotto cieli foschi, sulle rive di mari lividi, su terre ingrate, erano meglio preparati al nuovo verbo che insegna a disamare la terra, che dice la vita terrena un doloroso viaggio. Questi uomini non potevano vivere all'aperto, dissipando la loro attività in giuochi e feste; il raccoglimento dell'anima, l'esame della coscienza riusciva loro più facile; alla mortificazione della carne erano meglio preparati. Quando essi videro che cosa i Latini avevano fatto del cristianesimo, protestarono e fecero valere la loro protesta. Lungo tempo ignorati o mal noti, questi Nordici cominciarono a prender parte alla storia del mondo, produssero ingegni che ne espressero gl'ideali: a poco a poco il loro genio esercitò come un fascino sui Latini, disposti dalla stanchezza ad apprezzare la novità. Se pertanto la filosofia del secolo decimottavo, con i suoi dubbii e con le sue negazioni, fa impeto contro la scuola classica, l'invasione delle letterature nordiche accresce la vigoria dell'assalto. E la rivoluzione francese scuote la società dalle fondamenta, e Napoleone sconvolge il mondo: il sangue scorre a fiumi, dalle ghigliottine, sui campi di battaglia; gli Stati si trasformano, i confini si slargano, gli eserciti corrono dall'uno all'altro capo dell'Europa, i popoli si avvicinano: nuove visioni di cose tragiche o insolite passano dinanzi agli occhi della nuova progenie: i consigli di chi vorrebbe tornare alla compostezza, alla semplicità, alla serenità del passato non sono più uditi; ma gli ansiosi che hanno iniziato il mutamento non vi trovano la quiete, sibbene un'ansia nuova, più acuta. In questo tempo nasce Giacomo Leopardi.

      Egli può ben credersi classico, può bene appartarsi dal mondo moderno, può bene suscitare dentro di sè l'antico: non potrà far mai che questo antico torni realmente, non può distruggere in sè o d'intorno a sè gli effetti dei secolari o dei nuovi rivolgimenti. Chi più vuol essere classico, chi è animato da un più vivo sdegno contro i moderni, partecipa nondimeno a questa modernità e, senza volerlo, lo dimostra. Il Leopardi confessa apertamente d'essere stato durante un certo tempo con i moderni. Questo tempo è lo stesso durante il quale egli è ancora vivace, capace di muoversi, di operare. “Io da principio aveva il capo pieno delle massime moderne, disprezzava, anzi calpestava lo studio della lingua nostra; tutti i miei scrittacci originali erano traduzioni dal francese.„ Rammentiamoci di Chateaubriand il quale disse di sè: “J'étais Anglais, de manières, de goût et jusqu'à un certain point de pensées.„ Come il Francese cerca il nuovo in Inghilterra, così l'Italiano lo cerca in Francia: l'indirizzo è diverso, ma identica è la spinta interiore per la quale le cose note e vicine sono sdegnate, e ricercate le insolite e nuove. Così mentre in Germania le menti si nutriscono di Young e di Ossian, e Schiller e Goethe si appassionano per Shakespeare; in Francia la signora de Staël introduce il romanticismo tedesco; e Alfredo de Musset a diciassette anni preferisce non esser nulla se non potrà essere Schiller o Shakespeare, e Chateaubriand legge Werther prima di scrivere Renato — Ugo Foscolo lo ha letto in Italia prima di scrivere Jacopo Ortis — e Sainte-Beuve parla con tenerezza di Klopstock, e Carlo Nodier trae l'ispirazione da “cette merveilleuse Allemagne, la dernière patrie des poésies et des croyances de l'Occident.„ L'ardente e immaginoso fanciullo recanatese cerca anch'egli ed ama gli stranieri; e tale è la foga che egli mette in questa come in ogni altra sua passione, che arriva a disprezzare Omero, Dante, tutti i classici; ma il giovanetto riflessivo tosto comprende che la disciplina

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