Leopardi. Federico De Roberto
Чтение книги онлайн.
Читать онлайн книгу Leopardi - Federico De Roberto страница 9
Se Bonaparte non sfuggì al contagio nei primi tempi dell'epidemia, con quanta violenza non deve essa comunicarsi più tardi, nell'infuriare del romanticismo, ad un'anima sensitiva e fantasiosa come quella del Recanatese?... Abbiamo visto che la potenza del sentimento poetico e dello spirito filosofico è in lui causa di un intimo disagio; questo disagio potrebbe essere, ma non è curato dall'educazione; tutt'altro. Una disciplina uniforme avrebbe potuto essergli salutare; ma egli nasce in un tempo travagliato, in mezzo a un campo di battaglia. Senza l'avvelenamento romantico, non è da credere che le sue facoltà poetiche, l'immaginazione e la sensibilità, sarebbero state represse a vantaggio delle altre; ma non sarebbero state esasperate come furono. E se pure il poeta avesse potuto sentire come i romantici, senz'altro, certo non sarebbe stato contento, come non furono contenti i suoi predecessori e compagni e seguaci; ma non avrebbe sofferto, come soffrì, per avere nello stesso tempo tanto assiduamente ripensato il pensiero antico. Mentre intorno a lui ciascuno scrittore lotta contro un altro, egli lotta con sè stesso: è classico e romantico a un tempo, è attratto dall'una all'opposta parte. Fra le due retoriche cerca un accomodamento: la letteratura s'indirizzi “verso il classico e l'antico„ col soccorso della filosofia, trattando soggetti “del tempo„, riconoscendo “la necessità di adattarsi al gusto corrente„; ma i sentimenti, gli atteggiamenti morali, grazie ai quali ogni altro scrittore si mette piuttosto con l'una che con l'altra fazione, non si conciliano dentro di lui o si conciliano per farlo soffrire; perchè, mentre il romanticismo lo disgusta del reale, il classicismo lo rende incapace di adattarsi al mondo moderno. Leggete il suo canto Alla primavera, che porta anche un secondo titolo: Delle favole antiche: vedrete che egli loda i tempi quando tutta la natura era animata, quando le candide ninfe e gli agresti Pani popolavano i fonti ed i campi, quando i fiori e l'erbe ed i boschi vivevano, quando Eco non era un “vano error di venti„ ma il dolente spirito di una ninfa infelice. Il sentimento che glie lo detta non potrebbe essere più classico; consideratelo più attentamente: troverete che non è tanto classico quanto pare; c'è dentro quella stessa scontentezza del presente e del vicino che spinge i romantici verso il passato e l'esotico. I romantici puri si rifugiano col pensiero nel medio-evo cavalleresco e cristiano; il Leopardi lo evoca una volta:
O torri, o celle,
O donne, o cavalieri,
O giardini, o palagi!...
ma gl'immensi studii fatti intorno all'antichità lo rivolgono di preferenza a quel mondo pagano dal quale dovrebbe rifuggire interamente per essere romantico del tutto; nel quale dovrebbe serenamente rifugiarsi per essere del tutto classico. Nato più presto o più tardi, il suo spirito avrebbe forse seguito una sola corrente e nella nettezza delle visioni e nella saldezza dei convincimenti avrebbe trovato forza e sostegno: l'età perplessa nel quale vive accresce il suo disagio. Se egli possedesse una nativa capacità d'equilibrio, a lui si potrebbe riferire ciò che il Giordani dice del Canova, e “pietosa„ sarebbe stata la provvidenza ponendolo “sul doppio confine della memoria e dell'immaginazione umana a congiungere due spazii infiniti, richiamando a noi i passati secoli, e de' nostri tempi facendo ritratto agli avvenire„; ma questa congiunzione, alla quale il Leopardi artista deve la sua grandezza, è anche un'altra causa del dolore dell'uomo.
L'ESPERIENZA
I. LA SALUTE.
Quantunque, per la nativa sua tempra e per effetto dell'educazione, Giacomo Leopardi sia un'anima in pena, mal preparata a trovare e ad apprezzare la felicità, che è il bisogno di ogni uomo; nondimeno, se la fortuna gli sorridesse, se i beni gli si offrissero ed egli non li sapesse apprezzare, non avrebbe ragione di negarli. Ma che cosa gli prepara la vita?
Il primo, il più necessario, il più urgente dei beni è la salute, la pienezza, l'interezza delle facoltà organiche; senza di che nessun altro piacere, nessun'altra gioia è possibile, e lo stesso sentimento dell'essere è leso e menomato. “Il corpo è l'uomo„ fa dire lo stesso Leopardi al suo Tristano: “perchè (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; perchè la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui.„ Questo vigore corporale, la salute, il sommo bene, a pochi è negato: tanto esso è frequente e necessario, che il primo posto si dà ordinariamente ad altri, perchè “la vita è principalmente dei sani, i quali, come sempre accade, o disprezzano o non credono di poter perdere ciò che posseggono.„ Il Leopardi ne è privo.
Noi lo abbiamo visto scontento perchè, mentre la fantasia vivacissima gli dipinge arcani mondi ed arcana felicità, la ragione lo contrasta; e perchè mentre sente troppo, è poco capace di volere; ma insomma, con tutta la straordinaria sua precocità, egli è ancora un fanciullo, un adolescente, che impiega il suo tempo nello studio, che ha una gran febbre di sapere, che non si stanca di leggere, di annotare, di commentare, di trasportare sulle esili braccia i pesanti volumi dai palchetti della biblioteca alla scrivania. Supponiamo che in gioventù, nella maturità, egli goda d'una buona salute: il mondo, nonostante che egli lo sdegni, tosto o tardi, debolmente o fortemente, pure lo allaccerà. Invece, a diciassette anni, egli esce dagli studii portentosi con la schiena curva, i muscoli emaciati, la vista rovinata: il fanciullo vivace, l'eroe Filzero che le dava a tutti e non ne toccava da nessuno, Giacomo “il prepotente„ è un povero gobbo minacciato di cecità, oggetto di riso e di compassione. Senza dubbio non la sola enormità dello sforzo lo ha così ridotto; egli porta dalla nascita, nelle vene, un principio maligno. Le morti precoci, le malattie nervose e la pazzia sono state frequenti tra i suoi antenati; il sangue della vecchia stirpe si è impoverito e corrotto nei molteplici matrimonii tra consanguinei: troppe volte i Leopardi s'imparentano con gli Antici, ai quali appartiene anche la madre di Giacomo. Ella lo concepisce giovanissima, in tempi di spavento, quando il marito di lei è perseguitato dai Francesi invasori. L'eredità morbosa e il formidabile sforzo mentale spiegano la rovina della sua salute: la rachitide e quella che oggi si chiama neurastenia. Nel primo fiore della gioventù egli si sente morire, crede che non gli restino più di due o tre anni da vivere. Non ne ha ancora venti, e già la sua vita consiste nell'alzarsi tardi, nel mettersi a passeggiare sino all'ora del desinare, nel riprendere poi la passeggiata sino alla sera: non può scrivere un rigo e appena riesce a leggere per un'ora. Così dura sette mesi. Si rimette alla peggio, e allora capisce qual è la sua condanna: “ho potuto accorgermi e persuadermi, non lusingandomi, o caro, nè ingannandomi, che il lusingarmi e l'ingannarmi pur troppo è impossibile, che in me veramente non è cagione necessaria di morir presto, e purchè m'abbia infinita cura, potrò vivere, bensì strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso appena per la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi pregiudichi, o mi uccida.„
A ventun anno, nella primavera del 1819 comincia a soffrire d'una debolezza dei nervi oculari che gl'impedisce di poter leggere anche una sola riga; trascorre allora i suoi giorni sedendo con le braccia in croce, o passeggiando per le stanze, in modo che gli fa spavento. “Nell'età che le complessioni ordinariamente si rassodano, io vo scemando ogni giorno di vigore, e le facoltà corporali mi abbandonano ad una ad una.„ Ripiglia un po' di forza al rinfrescarsi della stagione, “ma l'imbecillità degli occhi, e però la miseria della mia vita, è sempre la stessa e maggiore.„ Il primo d'ottobre comincia una lettera al Giordani, ma un'oftalmia sopravvenuta alla debolezza non gli consente di finirla se non in sul finire del mese. L'amico lo sollecita a studiare; “gli studi,„ risponde il poveretto, “non so da otto mesi che cosa sieno, trovandomi i nervi degli occhi e della