Leopardi. Federico De Roberto
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Per questo sentimento orgoglioso combinato con lo sdegno della realtà nascono nei romantici la misantropia e l'amore della solitudine. L'anima è sola, il mondo è un deserto, la civiltà un tradimento fatto alla natura; il ritorno allo stato patriarcale il solo saggio partito. Il Leopardi scioglie un inno ai Patriarchi; detesta i raffinamenti, i pervertimenti della società; ama di caldo amore la semplice natura. “Senza fallo„ scrive al Giordani, “io spero che vi sentiate meglio anche voi, contemplando questa natura innocente, fra la malvagità degli uomini.„ Il Renato dello Chateaubriand ha chiamato la folla “vasto deserto di uomini„; il Leopardi dice: “veramente per me non c'è maggior solitudine della gran compagnia.„ Il suo carattere “è di chiudere nel profondo di me stesso tutti gli affanni e le affezioni vere„; naturalmente è inclinato alla vita solitaria, e la canta, e canta il passero solitario, il costume del quale tanto somiglia al suo. Questo raccoglimento dà luogo più tardi a una smania, a un bisogno di dissipazione; allora egli dice che non è “nato alla pazienza„, che la solitudine “non è fatta per quelli che si bruciano e si consumano da loro stessi„; e insomma, come tutti i romantici, egli è inquieto, incontentabile, non sa quel che vuole: “A me piace moltissimo la compagnia quando son solo, e la solitudine quando sono in compagnia....„ Dopo aver educato sentimenti idilliaci, si compiace, come i suoi maestri, degli spettacoli tragici, delle convulsioni della natura: la sua Saffo classicamente esprime un pensiero romantico:
Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de' Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra' nembi, e noi la vasta
Fuga de' greggi sbigottiti, o d'alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda.
Ma il suo stato abituale è il tedio, il fastidio, la noia; come quello dei romantici che, non contenti di annoiarsi all'italiana, alla francese o alla tedesca, hanno preso ad imprestito lo spleen inglese. Il tedio lo affoga, la noia non solamente lo “opprime e stanca„ ma lo “affanna e lacera„; e tanto gli è abituale, tanto è connaturata in lui, che gli pare naturale, lodevole e grata: “la noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa.„
Noi dovremo tornare più tardi su questi punti: notiamo per ora come altri sintomi del male romantico si riscontrino nel Leopardi. Sdegnando il mondo e i loro simili, che faranno gli annoiati? Niente nella vita gli attira; essi soli sono perfetti: passeranno pertanto il loro tempo osservando sè stessi; l'analisi psicologica viene in grande onore. L'abito filosofico di studiare nella propria la natura di tutti gli uomini è afforzato nel Recanatese da questa mania del suo tempo; egli pensa che nessuno scritto è più eloquente di quello dove altri parla di sè stesso. E mentre una forma d'arte, il romanzo, già cronaca degli avvenimenti, diventa ora lo specchio dell'anima; mentre Stendhal compone i suoi primi romanzi psicologici; Giacomo Leopardi, quello stesso classico Leopardi il quale voleva scrivere un romanzo storico “sul gusto della Ciropedia„, pensa di comporre la Storia d'un'anima: “romanzo che avrebbe poche avventure estrinseche, ma racconterebbe le vicende interne di un'anima nata nobile e tenera, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte„; pensa anche di comporre i Colloquii “dell'io antico e dell'io nuovo, cioè di quello che io fui, con quello ch'io sono; dell'uomo anteriore all'esperienza della vita e dell'uomo esperimentato.„
Se pure i romantici non fossero sdegnosi della realtà, se pure stimassero i loro simili e volessero frequentarli ed imitarli, vivendo come essi, ne sarebbero capaci? Le assidue analisi intime, l'intensità del pensiero, prima che nel Leopardi, in tutti gli altri romantici e nell'iniziatore della scuola attenuano l'energia volitiva e rendono incapaci di vivere: lo stesso Leopardi nota questa sua parentela col Ginevrino quando, enumerato nel Filippo Ottonieri i diversi generi di uomini, ragiona di quelli nella cui natura “è congiunta e mista alla forza una sorta di debolezza e di timidità: in modo che essa natura combatte seco medesima. Perocchè gli uomini di questa seconda specie.... non vengono a capo, nonostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addentrarsi all'uso pratico della vita, nè di rendersi nella conversazione tollerabili a sè non che altrui. Tali essere stati negli ultimi tempi, ed essere nell'età nostra, se bene l'uno più, l'altro meno, non pochi degl'ingegni maggiori e più delicati. E per un esempio insigne, recava Gian Giacomo Rousseau.„
L'incapacità di vivere come gli altri, l'assiduità delle meditazioni, la noia, l'inquietudine, la solitudine, producono la malattia del secolo: la malinconia, la disperazione, l'amor della morte. Se l'anima immaginosa e sensibile ha esaurito prima di vivere la sua forza vitale, se l'esperienza la scontenta, se il mondo la disgusta, se la solitudine la snerva, se gli altri la offendono, se la propria compagnia la stanca, dove resterà un rifugio? Nella morte, unicamente. A questa conclusione arrivano tutti i romantici. Werther si uccide, Ortis si uccide; i loro imitatori non sono soltanto legione nell'arte, ma anche nella vita. Una donna, la Staël, fa l'elogio del suicidio; un'altra donna, Elisa Mercoeur, tenta di asfissiarsi col profumo dei fiori. Vittorio Escousse a 19 anni e Augusto Lebras a 16, si asfissiano insieme perchè non si sentono al loro posto quaggiù, perchè manca loro la forza a ogni passo fatto avanti o indietro. Alfredo de Vigny riconosce che il suicidio è un delitto per la religione e per la morale, ma la disperazione può più che la ragione; e, se la vince, sarà da chiamar colpevole il suicida, il poeta, o non piuttosto il mondo?... Non occorre citare altri esempi. Miglior partito sarà dimostrare la forza di questo contagio. Giacomo Leopardi forse anche senza l'epidemia romantica avrebbe disperato; ma, senza le cause della sua disperazione che indagheremo fra poco ad una ad una, i germi del male diffusi nell'aria del suo tempo avrebbero attecchito e prodotto una grande rovina dentro di lui. Questi germi erano così virulenti che attaccarono e minacciarono per un momento la salute morale d'un uomo d'azione, dell'uomo destinato ad operare cose grandissime, dell'uomo che ebbe la massima energia e il massimo impero sopra sè stesso, sopra i suoi simili e sul mondo: Napoleone Bonaparte. “Je suis ennuyé de la nature humaine,„ scrive egli un giorno al fratello Giuseppe: “Les grandeurs m'ennuyent, le sentiment est desséché, la gloire est fade.„ Ed anch'egli si duole: “Un jour, au milieu des hommes, je rentre pour rêver en moi-même, et me livrer à toute la vivacité de ma mélancolie. De quel côté est elle tournée aujourd'hui?„ Ed anch'egli pensa alla morte: “Du côté de la mort. Dans l'aurore de mes jours, je puis encore espérer de vivre longtemps, et quelle fureur me porte à vouloir ma destruction?... Que faire dans ce monde?... Puisque je dois mourir, ne vaut-il pas autant se tuer? Si j'avais passé soixante ans, je respecterais les préjugés de mes contemporains et j'attendrais patiemment que la nature eût achevé