Viaggi di Gulliver nelle lontane regioni. Jonathan Swift

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Viaggi di Gulliver nelle lontane regioni - Jonathan Swift

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liscia. Con lo stesso ragguaglio fui proveduto di lenzuola, di coltri e coperte, abbastanza passabili per me che era già assuefatto alle asprezze del vivere.

      Divulgatasi la notizia del mio arrivo, tirò questa un prodigioso numero di ricchi, oziosi e curiosi, smanianti tutti dalla voglia di vedermi, di modo che gl'interi villaggi rimanevano deserti, donde sarebbero derivati gravi danni all'agricoltura ed all'economia pubblica e privata, se il provido monarca con gride ed ordini di gabinetto non fosse andato incontro al disordine. Decretò che chiunque m'avesse veduto una volta se ne tornasse a casa, nè s'arrischiasse più a comparire entro un raggio di cinquanta braccia dalla mia abitazione senza una licenza speciale della corte, la qual cosa fu una bella vigna di guadagno ai segretari di stato.

      Intanto l'imperatore tenea frequenti consigli ne' quali si discuteva il sistema da adottarsi rispetto a me: affare che dava molto da pensare alla corte, come ne fui assicurato in appresso da un mio particolare amico, personaggio di gran distinzione ed ammesso ai segreti di gabinetto al pari di chicchessia. Or si temea che rompessi le mie catene, ora che il mio mantenimento divenisse eccessivamente dispendioso, e producesse una carestia. Qualche volta si è venuto in discorso di farmi morir di fame, o almeno di scoccarmi frecce avvelenate al volto ed alle mani, che era poi il modo più speditivo per disfarsi di me, ma di lì a poco si considerava che il puzzo d'un così sterminato cadavere come sarebbe stato il mio, avrebbe potuto portar la peste nella metropoli e probabilmente nell'intero reame. In mezzo a tali consulte, parecchi ufiziali dell'esercito arrivarono nell'anticamera della sala del gran consiglio, e due di questi che furono ammessi in sessione, raccontarono il contegno da me usato verso i sei delinquenti de' quali vi ho già parlato. Ciò fece una impressione sì favorevole nel cuore del monarca e di tutti i membri della tavola di stato, che ne uscì un sovrano decreto, in forza del quale tutti i villaggi situati in un circuito di novecento braccia attorno alla città erano obbligati a somministrare ogni mattina sei buoi, quaranta pecore ed altre vettovaglie pel mio sostentamento; ed in oltre una proporzionata quantità di pane, vino ed altri liquori; e pel rimborso de' suddetti generi sua maestà aveva fatto un assegnamento su la sua imperiale tesoreria. Perchè è a sapersi che quel sovrano vive soprattutto su le rendite del suo demanio; e ben rare volte, eccetto casi oltre ogni dire straordinari, leva imposte sopra i suoi sudditi, che hanno per altro l'obbligo di accompagnarlo nelle sue guerre a proprie loro spese.

      Nello stesso tempo venne istituita una compagnia di seicento individui obbligati ad essere miei servitori, i quali aveano salari fissi pel loro mantenimento e l'alloggio sotto altrettante tende, convenientemente fabbricate ai lati dell'ingresso della mia abitazione. Fu parimente decretato che trecento sartori mi facessero un corredo di vestiti secondo la moda della metropoli, e che sei fra i primari dotti dell'istituto imperiale fossero impiegati nell'insegnarmi la lingua del paese; finalmente che i cavalli imperiali, quelli della nobiltà e delle guardie del palazzo facessero gli esercizii alla mia presenza per avvezzarsi a non aver paura vedendomi; tutti i quali ordini furono debitamente mandati ad esecuzione.

      In tre settimane, poco più, poco meno, si trovò ch'io avea fatto grandi progressi nell'intrapreso studio della nuova lingua. Durante il tempo delle mie lezioni, l'imperatore mi onorava sovente delle sue visite, e si compiaceva assistere egli stesso ai maestri che m'insegnavano. Cominciavamo già in qualche modo a conversare insieme, e le prime parole che imparai, e che di poi gli andai ripetendo ogni giorno mettendomi ginocchione perchè gli giugnessero bene all'orecchio, erano di preghiera perchè si degnasse concedermi la mia libertà. La sua prima risposta a quanto mi parve capire si fu: ciò non poter essere se non l'opera del tempo; non dovercisi pensare finchè non si fosse sentito l'avviso del suo consiglio di stato; che prima avrei dovuto lumos kelmin pesso desmar lon emposo, giurare cioè di mantenermi in pace con lui e col suo regno; che nondimeno sarei stato trattato con ogni cortesia. Mi consigliò intanto a meritarmi con la mia pazienza e la saggezza del mio contegno la buona opinione di lui e de' suoi sudditi.

      Un giorno mi chiese che non m'adombrassi se dava ordine a certi suoi uficiali di frugarmi i vestiti; perchè probabilmente avrei avute addosso molte armi che non poteano non essere di pericolosissima conseguenza se corrispondevano nell'efficacia alla mole della mia persona. Io gli risposi, parte per cenni, parte con parole, che sua maestà poteva essere benissimo soddisfatta senza il bisogno di una indagine d'ufizio, perchè io era prontissimo a spogliarmi ed a rovesciare le mie tasche alla sua imperiale presenza. Egli mi fece allora conoscere come le leggi del suo regno portassero che tale investigazione fosse fatta da due de' suoi ufiziali, comunque egli vedesse che ciò non si sarebbe potuto praticare senza il mio consenso ed aiuto; aver egli sì buona opinione della mia rettitudine e nobiltà d'animo che m'avrebbe lasciato senza diffidenza prendere in mano i detti due ufiziali; aggiunse che tutte le cose di cui si giudicherebbe opportuno il privarmi, sarebbero state a me restituite all'atto in cui abbandonassi il paese, o vero pagate ad un prezzo da stabilirsi da me medesimo. Mi presi dunque in mano i due uficiali, e me li posi prima nelle tasche del mio giustacuore, poi nell'altre tasche minori, eccetto due scarsellini ed un altro taschino segreto, che non avevo intenzione di lasciar frugare perchè contenea certe cosucce di mio comodo, che non potevano essere di conseguenza per altri fuorchè per me. In uno dei due scarsellini io teneva un orologio d'argento, nell'altro una borsa con poche monete d'oro. Que' due signori, avendo carta, penne ed inchiostro con loro, stesero un esatto inventario delle cose che videro, poi mi eccitarono a farne anche per parte mia una nota in iscritto, affinchè a norma degli ordini venissero portate all'imperatore. Più tardi mi sono divertito a tradurre quell'inventario ed eccovelo parola per parola.

      «Imprimis nella tasca destra del giustacuore del grand'uomo-montagna (così interpretai le parole quinbus flestrin), dopo le più accurate indagini non trovammo altro che un gran pezzo di drappo ruvido largo abbastanza per servire di tappeto alla grande sala del consiglio di vostra maestà. Nella sinistra vedemmo un'enorme cassa d'argento con un coperchio dello stesso metallo, che non eravamo buoni di alzare, onde eccitammo il proprietario ad aprirla. Un di noi che si pose a camminarvi entro si trovò a mezza gamba in una specie di polve, di cui una parte volata su la faccia mia e del mio compagno ne costrinse per qualche tempo a non far altro che starnutare. Nella tasca destra della camiciuola vi era uno sterminato fascio di certe sostanze bianche piegate una su l'altra, grosso come tre uomini, legato con una fortissima fune e screziato da figure nere: erano queste, secondo l'umile nostro parere, scritture di cui ciascuna lettera era larga come il palmo di una delle nostre mani. Nella sinistra trovammo una specie di macchina sul cui dorso stava una fila di venti lunghi pilastri somigliante alla palizzata posta innanzi alla corte di vostra maestà: congetturammo che con questa l'uomo-montagna si pettini il capo, chè non sempre gli facevamo interrogazioni, e ciò per la grande difficoltà che trovavamo nel farci intendere. Nella maggior saccoccia destra del suo vestito di mezzo (così traduco la parola ranfu-lo, e credo sarà stato un modo rispettoso di cui si valsero per indicare a sua maestà le mie brache) vedemmo una colonna concava d'acciaio incastrata entro un torso di legno più grosso della colonna, da cui sporgevano alcuni enormi pezzi di ferro intagliati in una strana guisa, nè sappiamo che cosa si possa farne. Nella saccoccia sinistra vi era un'altra macchina della stessa natura. Nella più piccola scarsella di destra vedemmo molti pezzi rotondi e piatti di metallo bianco e rosso, di calibro diverso fra loro. Alcuni dei bianchi pareano d'argento, ed erano sì larghi e pesanti che il mio compagno ed io durammo non poca fatica a levarli. Nella corrispondente più piccola scarsella di sinistra stavano due pilastri neri di forma irregolare. Da stare su la cima dello scarsellino era cosa quasi impossibile per noi il prenderli per l'estremità superiore e tirarli di lì. Un di questi era tutto di un pezzo; dalla parte superiore dell'altro sporgea fuori un certo globo bianco, grosso all'incirca come dodici delle nostre teste. In entrambi era rinchiuso un enorme pezzo d'acciaio, come avemmo occasione di avverare, perchè immaginando che quelle macchine fossero di molto pericolo, obbligammo l'uomo montagna a farci vedere ogni cosa. Tolti fuori dalle due casse (tali erano que' due pilastri), i pezzi enormi d'acciaio che vi si conteneano, ne raccontò

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