Viaggi di Gulliver nelle lontane regioni. Jonathan Swift

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Viaggi di Gulliver nelle lontane regioni - Jonathan Swift

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gli occhi e le mani in atto di ammirazione, e sclamò con voce strillante ma distinta: Hekina degul! esclamazione che gli altri ripeterono a coro parecchie volte, senza che certamente io capissi allora che cosa si volessero dire.

      Rimasi tutto questo tempo, ed il leggitore me lo crederà facilmente, in uno stato di grande agitazione; finalmente a furia di sforzi per mettermi in libertà, ebbi la fortuna di rompere le cordicelle che mi strignevano attorno la vita e di staccare dal suolo le caviglie che tenevano legato il mio braccio sinistro. Allora, portandomi alla faccia questo braccio, potei capire la meccanica di cui si erano valsi per legarmi a quel modo, e nel medesimo tempo con una violenta strappata, che mi produsse tutt'altro che gusto, arrivai ad allentare i legamenti che attaccavano i miei capelli al terreno, ciò che mi diede abilità quanta bastava per dare alla mia testa una voltata di circa due dita. Ma quelle creature tornarono a fuggire dal mio corpo prima che potessi acchiapparne una sola.

      In questa, udii un nuovo grido stridulo oltre ogni dire, dietro cui uno di que' campioni profferì ad alta voce queste parole: Tolgo phonac, ed in un subito sentii volar su di me la scarica d'un centinaio di frecce che cadute su la mia mano sinistra la forarono come altrettanti aghi da cucire. Poi, senza darmi tregua, scoccarono all'aria una folata di dardi, come facciamo noi colle bombe in Europa, alcuni de' quali caddero, suppongo, sul mio corpo, ancorchè io non li sentissi grazie ai miei panni: ed altri su la mia faccia che mi copersi con la mano destra. Cessata questa pioggia d'armi da lancio, misi un gemito di dolore, poi voleva far gli ultimi sforzi per isciogliermi, ma que' signorini non me ne diedero il tempo, chè mi mandarono addosso una rugiada di quelle galanterie, copiosa più della prima, anzi alcuni si arrischiarono a tribolarmi i fianchi con le loro aste; ma per buona sorte li riparava la mia casacca di cuoio di bufalo, onde non riuscirono a trafiggerli. Credei quindi che il più saggio partito per me fosse lo starmene quieto per allora; e divisai starci fino alla notte, durante la quale, avendo la mano destra già in libertà, non mi sarebbe stato difficile far libero il resto della mia persona; chè poi, in piedi una volta, io mi giudicava un competitore bastantemente gagliardo per un intero de' loro eserciti, se pure ciascun soldato era dello stesso calibro di quello che venne a trovarmi la prima volta. Ma il destino dispose altrimenti di me.

      Poichè quella popolazione si fu accorta che io mi era messo quieto, non mi vennero scaricate addosso altre frecce; ma dallo strepito che io udiva, capii che cresceva sempre di numero, e ad una distanza di circa quattro braccia, rimpetto al mio orecchio destro, udii per una buon'ora continua un picchiamento come di gente intenta ad una fabbrica. Arrivato, sin quanto me lo permettevano le caviglie conficcate in terra e le mie legature, a voltare il capo da quella banda, vidi un palco alto all'incirca un piede e mezzo da terra, capace di contenere quattro di quegli abitanti, con due o tre scale a mano per salirvi; dalla quale tribuna un di loro, che all'aspetto pareva un personaggio di distinzione, mi tenne un lungo discorso di cui non intesi una sillaba.

      Avrei dovuto premettere che quel personaggio principale, prima di cominciare la sua concione, gridò forte per tre volte: Langro dehul san (e queste parole e le precedenti mi furono in appresso ripetute e spiegate). Non appena furono profferite, ebbi presso di me una cinquantina di quei nativi, che tagliò la cordicella da cui era reso immobile il lato sinistro del mio capo, ond'ebbi la libertà di voltarlo a destra e di contemplare la persona ed i gesti dell'oratore. Parvemi fosse di mezza età e più alto dei tre altri; un de' quali era un paggio del corteggio, un po' più lungo del mio dito di mezzo, collocato fra due che gli servivano di braccieri. Egli adempì tutte le incombenze di un oratore, perchè mi parve notare nella sua aringa molti periodi di minaccia, ma molt'altri ancora di promesse, di compassione e persino di cortesia.

      Risposi in pochi cenni, ma d'una guisa la più sommessa, sollevando la mia mano sinistra ed entrambi gli occhi al sole, come chiamandolo in testimonio della mia sincerità. Ma c'era un'altra cosa: io mi sentiva morto di fame, che non avevo preso un morsello di cibo fin da più ore prima di abbandonare il bastimento, e questo bisogno della natura era sì imperioso, che non potei starmi dal far conoscere il mio mal essere (anche a costo di mancare alle strette regole dell'etichetta), col cacciarmi sovente le dita in bocca per dar a capire la mia necessità di mangiare. L'hurgo (così viene colà denominato un gran personaggio, come seppi da poi) mi comprese ottimamente. Sceso dalla sua tribuna, ordinò s'appoggiassero ai miei fianchi diverse scale, su cui salì un centinaio circa di que' nativi, i quali presero la via della mia bocca, carichi di canestri pieni di vivande, che il re aveva fatte preparare e mandar qui alla prima notizia del mio arrivo su quella spiaggia. Notai che erano composte di carni d'animali diversi, ma al palato non potei distinguerne le specie. Vi erano spalle, piedi e lombi come quelli di castrato, cucinati a perfezione, ma più piccioli di un'ala di lodola. Io ne mangiava due o tre in un boccone, e ad una volta con essi tre pagnotte, grosse ciascuna come una palla di moschetto. Mi rinovarono questa provista il più presto che poterono, dando mille segni di stupore e sbalordimento all'enormità della mia mole e del mio appetito.

      Indicai allora per cenni un altro bisogno: quello di bere. A proporzione di quello ch'io aveva mangiato, capirono che una piccola quantità di vino non mi sarebbe bastata; ed essendo creature di molto ingegno, fecero con gran destrezza salir su' miei fianchi una delle più ampie botti, e, ruzzolatala verso la mia mano, ne tirarono fuori la cannella. Ne bevei tutto il liquido in una sorsata, perchè la botte non arrivava a contenere un mezzo boccale di vino, della natura del mezzo borgogna, ma più delizioso d'assai. Fecero arrivarmi una seconda botte che mi tracannai nella stessa maniera, poi feci segni per nuovo vino, ma non ne avevano lì altro da darmi. Terminate che ebbi queste meraviglie, misero grida e salti di gioia sopra il mio corpo, ripetendo più volte quelle parole della prima volta: Hekinah degul! Allora mi fecero segno di gettar giù le due botti, raccomandando per prima cosa ai passeggeri di tirarsi da banda e gridando forte: Borach mevolah; poi quando videro le botti in aria, fu un grido universale: Hekinah degul!

      Confesso che mentre costoro passeggiavano così in lungo ed in largo sopra il mio corpo, mi era venuta più d'una volta la tentazione di agguantarne con la mia mano sinistra una quarantina o una cinquantina dei primi che mi fossero venuti a tiro e batterli contro al terreno. Ma la ricordanza di quanto io aveva sofferto, nè forse era il peggio che avessero potuto farmi in quella mia posizione, e la parola d'onore che aveano ricevuto da me, perchè io riguardava per tale la rassegnazione data loro a divedere, mi scacciarono dalla testa un tale estro. Poi mi consideravo anche legato dai vincoli dell'ospitalità verso un popolo che m'avea trattato con tanta spesa e magnificenza. Ciò non ostante non potevo in mio cuore desistere dallo stupirmi dell'intrepidezza di quegli esseri in bassorilievo, che salivano e si diportavano sul mio corpo, mentre io aveva una mano libera, senza tremare alla vista d'una sì sterminata creatura com'io doveva ad essi parere.

      Dopo qualche tempo, e quando videro ch'io non faceva più alcuna domanda di cibo, mi comparve innanzi un personaggio d'alto conto inviato da sua maestà imperiale. Sua eccellenza, dopo essere salita su la parte sottile della mia gamba destra, venne su fino alla mia faccia, e tratte fuori le sue credenziali, munite del regio suggello, che mi piantò rasente gli occhi, parlò all'incirca dieci minuti, senza manifestare alcuna sorta di sdegno, per altro con un certo fare risoluto, spesse volte accennandomi un punto in distanza, che seppi più tardi essere la metropoli del regno, lontana di lì un mezzo miglio a un dipresso, ove, dietro beneplacito manifestato da sua maestà nel consiglio de' suoi ministri, io doveva essere condotto. Gli risposi poche cose, ma che non istavano in tuono con la proposta; poichè gli feci un segno con la mia mano sciolta che portai su la legata (tenendola ben alta dalla testa di sua eccellenza per paura di buttar giù lui o il suo corteggio), indi mi toccai con la stessa mano il capo ed il corpo per fargli capire il mio desiderio di essere libero.

      Parve in fatti che m'intendesse,

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