Viaggi di Gulliver nelle lontane regioni. Jonathan Swift

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Viaggi di Gulliver nelle lontane regioni - Jonathan Swift

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nondimeno in quella periferia; mi procuravano un altro vantaggio, che essendo cioè infitte alle pareti quattro dita al di dentro della porta, mi permettevano il ficcarmici entro e giacervi con tutta la lunghezza del mio corpo.

       Indice

      L'imperatore di Lilliput accompagnato da parecchi de' suoi nobili, si reca a vedere l'autore nel luogo del suo confine. — Descrizione della persona e delle vesti del monarca. — Dotti incaricati d'insegnare all'autore la lingua del paese. — Favore che questi si acquista per la sua mansuetudine e bontà di cuore. — Visita fatta alle sue tasche; toltagli la spada e le pistole.

      Quando mi trovai in piedi, mi guardai attorno, e confesso di non aver mai veduta una più dilettevole prospettiva. Contemplato da tutte le bande il paese, mi apparve un continuato giardino, ed i campi chiusi, ciascuno in generale dell'estensione di quaranta piedi quadrati, mi sembravano altrettante aiuole di fiori. Questi campi andavano interpolati da boschi larghi mezza pertica quadrata, e i più alti alberi, a quanto potei giudicare in distanza, dovevano arrivare fino ai sette piedi. La metropoli che stava alla mia mano manca mi presentava l'aspetto d'una scena dei nostri teatri, su cui sia dipinta una città.

      Per alcune ore io era stato pressato da alcune necessità indispensabili della natura, ned è meraviglia, perchè passavano due giorni da che non m'ero alleggerito di certe incomode superfluità. Io mi vedeva orridamente alle strette tra l'urgenza del caso e tra la vergogna. Non vidi miglior espediente del cacciarmi entro della mia casa, e chiuderne la porta dietro di me. Così feci, poi andatomene tanto lontano, quanto la mia catena me lo permetteva... il resto non ha bisogno di spiegazione. Fu questa l'unica volta che mi resi colpevole di un atto sì sconcio; intorno a che supplico il candido leggitore ad accordarmi qualche perdono, e spero ottenerlo, quand'egli avrà ponderato l'arduità delle circostanze che mi premevano. Da quella volta in poi fu costante mio studio il liberarmi di questo pensiero ogni mattina appena alzato, fuor della porta, e lontano quanto mel permettevano i miei ceppi; in guisa che prima che mi arrivasse compagnia, ogni immondo vestigio veniva fatto sparire da due servi muniti di carriuole, assegnatimi per la mondezza esterna ed interna della mia casa-tempio. Non avrei forse dovuto fermarmi sì a lungo sopra una particolarità, a prima vista, non d'alto momento; ma mi parea necessario giustificare agli occhi del mondo la maniera mia di sentire in ordine a pulitezza; argomento su cui non sono mancati i maligni che, e nel caso presente ed in altre circostanze de' viaggi da me narrati, si sono divertiti spargere qualche dubbio.

      Terminata questa faccenda, venni fuori della mia nicchia, chè certo avevo bisogno di respirar l'aria aperta. In quell'intervallo l'imperatore era sceso dalla sua torre, e mi veniva in verso a cavallo; corsa che per poco non gli tornò ben fatale, perchè il suo cavallo ch'era, se vogliamo, ben addestrato, ma niente avvezzo a tal vista, qual si fu quella di un'apparente montagna che si movesse dinanzi a lui, si rizzò su le zampe di dietro; onde ci volle tutta la maestria del principe, per sua buona sorte, eccellente cavallerizzo, perchè si tenesse in arcione tanto che arrivassero i palafrenieri che galoppando si era lasciati addietro: questi, impadronitisi delle redini, gli diedero agio a smontare. Poichè fu a terra, mi girò attorno contemplandomi con grande attenzione, per altro tenendosi sempre ad una distanza maggiore della lunghezza della mia catena. Ordinò ai suoi cuochi e bottiglieri, muniti già d'ordini precedenti, di apprestarmi cibi e bevande, il tutto condotto ivi su certe barelle fornite di ruote, ed alte tanto che fossero a portata della mia mano. Mi presi in mano le barelle e feci presto a vuotarle tutte: venti di esse erano cariche di vivande, dieci di vino; in due od al più tre bocconi io mi mangiava il contenuto di ciascuna delle prime; ogni barella di vino portava l'equivalente di dieci botti diviso in tante caraffine di terra, e i recipienti d'ogni barella io facea vuoti in una sorsata. L'imperatrice ed i giovani principi del sangue d'entrambi i sessi con molto corteggio di cavalieri e di dame stavano in qualche distanza nelle loro carrozze, ma dopo il pericolo corso da sua maestà, smontati tutti, si raccolsero attorno all'imperiale persona che m'accingo ora a descrivere.

      Questo monarca è più alto, quasi d'una mia unghia, di tutti gli altri della sua corte: circostanza che bastava di per sè sola a comprendere di rispettosa suggezione chi alzava gli occhi su lui. Vigorose e maschili ne erano le fattezze, austriaco il labbro, il naso aquilino, la carnagione olivastra, la fisonomia dignitosa, ben proporzionato il corpo e le membra, grazioso ogni moto, maestoso il portamento. Era allora fuori della prima giovinezza, poco mancandogli a compire i ventinove anni, de' quali ne contava sette di regno felice e quasi sempre dalle vittorie illustrato. Per poterlo guardar più a mio modo m'ero accosciato in fianco sì che la mia faccia restasse parallela alla sua; ma più tardi, essendomelo tenuto ripetutamente fra le mani, non posso ingannarmi nella descrizione che ne fo adesso. Semplice e liscio ne era il vestito, di foggia tra l'asiatica e l'europea, ma portava sul capo un lieve elmetto d'oro ornato di gemme ed una piuma sul cimiero. Teneva in mano la spada sguainata per difendersi ad un caso che avessi infranti i miei ceppi; era questa lunga all'incirca tre dita, l'elsa ed il fodero ne erano d'oro, tempestati di diamanti. Aveva una voce stridula, ma limpida e sì distintamente articolata, ch'io poteva udirne le parole da stare in piedi. Le dame ed i cortigiani erano messi in tanta magnificenza che il sito ove stavano sembrava un tappeto disteso sul terreno, tutto rabescato di figurine d'oro e d'argento. Sua maestà imperiale mi volgea sovente la parola, ed io rispondeva, ma non intendevamo una sillaba l'uno dell'altro. Vi erano parecchi sacerdoti ed uomini di toga (tali almeno li congetturai dai loro abiti) ai quali fu ordinato di dirmi qualche cosa. Io ebbi un bel parlar loro in tutte le lingue, in quelle, intendiamoci, di cui avevo almeno qualche infarinatura, l'alto e basso olandese, il latino, il francese, lo spagnuolo, l'italiano, la lingua franca, ma fiato gettato!

      Dopo due ore a un dipresso, la corte si ritirò; e fui lasciato con una buona guardia per impedire le imprudenze, e probabilmente le malignità che potrebbe commettere la plebaglia ansiosa d'affollarmisi attorno fino al segno cui poteva arrischiarsi; e fra questa plebaglia vi furono alcuni che, mentre me ne stavo seduto per terra alla porta della mia abitazione, ebbero la sfacciataggine di scoccarmi frecce, una delle quali poco mancò non mi trafiggesse l'occhio sinistro. Ma il colonnello ordinò che sei de' capi instigatori del disordine fossero presi, nè trovò per costoro castigo più adatto del darmeli legati nelle mani; a norma di che alcuni soldati me li spinsero inverso con le punte delle loro picche. Presili tutti nella mia mano sinistra, ne misi cinque in una tasca del mio vestito, e quanto al sesto feci mostra di volermelo mangiar vivo. Quel poveretto gridava come una anima dannata, e lo stesso colonnello ed i suoi uficiali erano sbigottiti, tanto più, quando mi videro dar mano al mio coltello; ma li levai ben tosto di pena tutti, perchè serenandomi in viso, tagliai le cordicelle che legavano il paziente, e lo posai gentilmente a terra, d'onde fuggì via con quanta avea gamba. Usai agli altri ugual trattamento, poichè me li fui tolti ad uno ad uno fuor di scarsella. Potei notare allora come i soldati ed il popolo gustassero tale contrassegno di mia clemenza, generoso atto che più tardi, reso noto alla corte, mi fruttò vantaggi ineffabili.

      Sul far della notte entrai non senza qualche fatica nella mia casa, ove giacqui sul terreno, e continuai così per due buone settimane; ma in questo mezzo, l'imperatore avea dati ordini perchè mi venisse apparecchiato un letto. Seicento letti di comune misura furono condotti su dei carri, ed introdotti nella mia stanza; centocinquanta de' loro letti uniti insieme facevano appunto la lunghezza e larghezza del mio, di modo che sovrapposti a centocinquanta mi componevano un letto a quattro doppi; ma ad onta di ciò, mi era

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