La coscienza di Zeno. Italo Svevo

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La coscienza di Zeno - Italo  Svevo

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e lo falsificò. Questo rancore era dedicato prima di tutto al Coprosich ed era aumentato dal mio sforzo di celarglielo. Ne avevo poi anche con me stesso che non sapevo riprendere la discussione col dottore per dirgli chiaramente ch’io non davo un fico secco per la sua scienza e che auguravo a mio padre la morte pur di risparmiargli il dolore.

      Anche con l’ammalato finii coll’averne. Chi ha provato di restare per giorni e settimane accanto ad un ammalato inquieto, essendo inadatto a fungere da infermiere, e perciò spettatore passivo di tutto ciò che gli altri fanno, m’intenderà. Io poi avrei avuto bisogno di un grande riposo per chiarire il mio animo e anche regolare e forse assaporare il mio dolore per mio padre e per me. Invece dovevo ora lottare per fargli ingoiare la medicina ed ora per impedirgli di uscire dalla stanza. La lotta produce sempre del rancore.

      Una sera Carlo, l’infermiere, mi chiamò per farmi constatare in mio padre un nuovo progresso. Corsi col cuore in tumulto all’idea che il vecchio potesse accorgersi della propria malattia e rimproverarmela.

      Mio padre era in mezzo alla stanza in piedi, vestito della sola biancheria, con in testa il suo berretto da notte di seta rossa. Benché l’affanno fosse sempre fortissimo, egli diceva di tempo in tempo qualche breve parola assennata. Quand’io entrai, egli disse a Carlo:

      – Apri!

      Voleva che si aprisse la finestra. Carlo rispose che non poteva farlo causa il grande freddo. E mio padre per un certo tempo dimenticò la propria domanda. Andò a sedersi su una poltrona accanto alla finestra e vi si stese cercando sollievo. Quando mi vide, sorrise e mi domandò:

      – Hai dormito?

      Non credo che la mia risposta lo raggiungesse. Non era quella la coscienza ch’io avevo tanto temuto. Quando si muore si ha ben altro da fare che di pensare alla morte. Tutto il suo organismo era dedicato alla respirazione. E invece di starmi a sentire egli gridò di nuovo a Carlo:

      – Apri!

      Non aveva riposo. Lasciava la poltrona per mettersi in piedi. Poi con grande fatica e con l’aiuto dell’infermiere si coricava sul letto adagiandovisi prima per un attimo sul fianco sinistro eppoi subito sul fianco destro su cui sapeva resistere per qualche minuto. Invocava di nuovo l’aiuto dell’infermiere per rimettersi in piedi e finiva col ritornare alla poltrona ove restava talvolta più a lungo.

      Quel giorno, passando dal letto alla poltrona, si fermò dinanzi allo specchio e, rimirandovisi, mormorò:

      – Sembro un Messicano!

      Io penso che fosse per togliersi all’orrenda monotonia di quella corsa dal letto alla poltrona ch’egli quel giorno abbia tentato di fumare. Arrivò a riempire la bocca di una sola fumata che subito soffiò via affannato.

      Carlo m’aveva chiamato per farmi assistere ad un istante di chiara coscienza nell’ammalato:

      – Sono dunque gravemente ammalato? – aveva domandato con angoscia. Tanta coscienza non ritornò più. Invece poco dopo ebbe un istante di delirio. Si levò dal letto e credette di essersi destato dopo una notte di sonno in un albergo di Vienna. Deve aver sognato di Vienna per il desiderio della frescura nella bocca arsa ricordando l’acqua buona e ghiacciata che v’è in quella città. Parlò subito dell’acqua buona che l’aspettava alla prossima fontana.

      Del resto era un malato inquieto, ma mite. Io lo paventavo perché temevo sempre di vederlo inasprirsi quando avesse compresa la sua situazione e perciò la sua mitezza non arrivava ad attenuare la mia grande fatica, ma egli accettava obbediente qualunque proposta gli fosse fatta perché da tutte si aspettava di poter venir salvato dal suo affanno. L’infermiere si offerse di andargli a prendere un bicchiere di latte ed egli accettò con vera gioia. Con la stessa ansietà con cui poi attese di ottenere quel latte, volle esserne liberato dopo di averne ingoiato un sorso scarso e poiché non subito fu compiaciuto, lasciò cadere quel bicchiere a terra.

      Il dottore non si mostrava mai deluso dello stato in cui trovava il malato. Ogni giorno constatava un miglioramento, ma vedeva imminente la catastrofe. Un giorno venne in vettura ed ebbe fretta di andarsene. Mi raccomandò d’indurre l’ammalato di restar coricato più a lungo che fosse possibile perché la posizione orizzontale era la migliore per la circolazione. Ne fece raccomandazione anche a mio padre stesso il quale intese e, con aspetto intelligentissimo, promise, restando però in piedi in mezzo alla stanza e ritornando subito alla sua distrazione o meglio a quello ch’io dicevo la meditazione sul suo affanno.

      Durante la notte che seguì, ebbi per l’ultima volta il terrore di veder risorgere quella coscienza ch’io tanto temevo. Egli s’era seduto sulla poltrona accanto alla finestra e guardava traverso i vetri, nella notte chiara, il cielo tutto stellato. La sua respirazione era sempre affannosa, ma non sembrava ch’egli ne soffrisse assorto com’era a guardare in alto. Forse a causa della respirazione, pareva che la sua testa facesse dei cenni di consenso.

      Pensai con spavento: «Ecco ch’egli si dedica ai problemi che sempre evitò». Cercai di scoprire il punto esatto del cielo ch’egli fissava. Egli guardava, sempre eretto sul busto, con lo sforzo di chi spia traverso un pertugio situato troppo in alto. Mi parve guardasse le Pleiadi. Forse in tutta la sua vita egli non aveva guardato sì a lungo tanto lontano. Improvvisamente si volse a me, sempre restando eretto sul busto:

      – Guarda! Guarda! – mi disse con un aspetto severo di ammonizione. Tornò subito a fissare il cielo e indi si volse di nuovo a me:

      – Hai visto? Hai visto?

      Tentò di ritornare alle stelle, ma non poté: si abbandonò esausto sullo schenale della poltrona e quando io gli domandai che cosa avesse voluto mostrarmi, egli non m’intese né ricordò di aver visto e di aver voluto ch’io vedessi. La parola che aveva tanto cercata per consegnarmela, gli era sfuggita per sempre.

      La notte fu lunga ma, debbo confessarlo, non specialmente affaticante per me e per l’infermiere. Lasciavamo fare all’ammalato quello che voleva, ed egli camminava per la stanza nel suo strano costume, inconsapevole del tutto di attendere la morte. Una volta tentò di uscire sul corridoio ove faceva tanto freddo. Io glielo impedii ed egli m’obbedì subito. Un’altra volta, invece, l’infermiere che aveva sentita la raccomandazione del medico, volle impedirgli di levarsi dal letto, ma allora mio padre si ribellò. Uscì dal suo stupore, si levò piangendo e bestemmiando ed io ottenni gli fosse lasciata la libertà di moversi com’egli voleva. Egli si quietò subito e ritornò alla sua vita silenziosa e alla sua corsa vana in cerca di sollievo.

      Quando il medico ritornò, egli si lasciò esaminare tentando persino di respirare più profondamente come gli si domandava. Poi si rivolse a me:

      – Che cosa dice?

      Mi abbandonò per un istante, ma ritornò subito a me:

      – Quando potrò uscire?

      Il dottore incoraggiato da tanta mitezza mi esortò a dirgli che si forzasse di restare più a lungo nel letto. Mio padre ascoltava solo le voci a cui era più abituato, la mia e quelle di Maria e dell’infermiere. Non credevo all’efficacia di quelle raccomandazioni, ma tuttavia le feci mettendo nella mia voce anche un tono di minaccia.

      – Sì, sì, – promise mio padre e in quello stesso istante si levò e andò alla poltrona.

      Il medico lo guardò e, rassegnato, mormorò:

      – Si vede che un mutamento di posizione gli dà un po’ di sollievo.

      Poco dopo ero a letto, ma non seppi chiuder occhio. Guardavo nell’avvenire indagando per trovare perché e per chi avrei potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi. Piansi

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