Assassino Zero. Джек Марс

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Assassino Zero - Джек Марс Ein Agent Null Spionage-Thriller

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è compito tuo”. Suo padre si chinò e cercò la sua mano. Lei quasi sussultò, ma poi le sue dita si chiusero attorno alle sue. “Apprezzo l'offerta. Sono sicuro che anche Sara lo farebbe.

      Ma hai degli obiettivi. Hai un sogno nel cassetto. Hai lavorato duramente per raggiungerlo e devi continuare a perseguirlo”.

      Maya sbatté le palpebre, un po' sorpresa. Suo padre non aveva mai mostrato di sostenere il suo desiderio di entrare a far parte della CIA e di diventare l'agente più giovane della storia. In effetti, aveva spesso tentato di dissuaderla, ma lei era irremovibile.

      Lui sorrise, sembrando cogliere la sua sorpresa. “Non fraintendermi. Non mi piace comunque. Ma ora sei grande; è la tua vita. È giusto che sia tu a scegliere”.

      Lei ricambiò il sorriso. Era cambiato. E forse dopo tutto c'era la possibilità di tornare a quello che erano una volta. Ma prima bisognava aiutare Sara.

      “Penso”, disse piano, “che Sara potrebbe aver bisogno di più aiuto rispetto a quello che possiamo darle. Penso che potrebbe aver bisogno di un aiuto professionale”.

      Suo padre annuì come se lo sapesse già, come se avesse già pensato la stessa cosa ma sentisse il bisogno di sentirselo dire da qualcun altro. Lei gli strinse delicatamente la mano per rassicurarlo, e poi rimasero in silenzio. Nessuno dei due sapeva cosa sarebbe successo, ma per il momento tutto ciò che contava era che fossero a casa.

      CAPITOLO TRE

      Chiunque abbia definito New York “la città che non dorme mai” non è mai stato nella vecchia Avana, rifletté Alvaro mentre si dirigeva verso il porto e il Malecón. Alla luce del giorno, l’Avana vecchia era una bellissima parte della città, una ricca miscela di storia e arte, gastronomia e cultura, ma le strade erano piene di traffico e dei rumori dei cantieri per i vari progetti di restauro volti a riportare i quartieri storici all'antico splendore.

      Ma di notte… era di notte che la città mostrava i suoi veri colori. Le luci, i profumi, la musica, le risate: e il Malecón era il posto migliore. Le strette stradine che circondavano Calle 23, dove abitava Alvaro, erano abbastanza vivaci, ma la maggior parte dei bar cubani chiudevano a mezzanotte. Tuttavia, vicino al porto i locali notturni rimanevano aperti, il volume della musica era sempre più alto e l'alcol scorreva copioso in molti bar e locali.

      Il Malecón era un'ampia strada che si estendeva per otto chilometri lungo i confini dell'Avana, fiancheggiata da strutture dipinte di verde e rosa corallo. Molti dei locali tendevano a snobbarla a causa dei numerosi turisti, ma questa era una delle molte ragioni per cui Alvaro ne era attratto; nonostante i sempre più numerosi (e irritanti) locali in stile europeo, c'era ancora una manciata di posti in cui un ritmo di salsa resisteva alla musica elettronica proveniente dagli edifici vicini.

      Tra la popolazione locale vigeva un detto secondo cui Cuba fosse l'unico posto al mondo in cui bisognasse pagare i musicisti per non suonare, e questo era certamente vero durante il giorno. Sembrava che ogni persona che possedesse una chitarra o una tromba o un set di bonghi avesse aperto un negozio all'angolo di una strada, e in ogni isolato la musica accompagnava il rombo delle macchine edili e il suono dei clacson delle macchine. Ma la notte era una storia diversa, specialmente sul Malecón; la musica dal vivo andava diminuendo, stava perdendo la battaglia contro la musica elettronica, o peggio, stava soccombendo a qualunque hit pop importata dagli Stati Uniti.

      Eppure, Alvaro non si preoccupava di nulla di tutto ciò, purché ci fosse La Piedra. Si trattava di uno dei pochi veri bar cubani rimasti sul lungomare: le sue porte erano ancora aperte – letteralmente, bloccate da fermaporta in modo che la musica vivace della salsa arrivasse alle orecchie del visitatore ancora prima di entrare. Non c'era coda per entrare a La Piedra, a differenza delle moltissime discoteche europee. Non c'era una folla brulicante che cercava di richiamare l'attenzione dei baristi accalcandosi ai banconi. L'illuminazione non era debole o stroboscopica ma intensa, proprio per accentuare appieno l'arredamento vibrante e colorato. Una band di sei elementi suonava su un palco che difficilmente poteva essere chiamato tale, costituito da una piattaforma leggermente rialzata nell'angolo più lontano del bar.

      Alvaro era in perfetta sintonia con La Piedra, con la sua camicia di seta decorata con un motivo bianco e giallo di Mariposa, il fiore nazionale di Cuba. Era alto e scuro, giovane e ben rasato, piuttosto bello. Qui, nel piccolo club di salsa di Malecón, non era solo un cuoco con le unghie sporche di grasso e lievi ustioni alle mani. Era un misterioso ed eccitante sconosciuto. Una storia allettante da raccontare a casa o un segreto da mantenere.

      Si avvicinò al bar e indossò quello che sperava fosse un sorriso seducente. Al bancone c'era Luisa, come quasi tutte le sere. La loro routine era diventata una specie di danza in sé, uno scambio abituale e sempre uguale.

      “Alvaro”, disse lei in tono indifferente, a malapena in grado di reprimere un sorriso. “Ecco la nostra trappola per turisti”.

      “Luisa”, rispose lui languido. “Sei meravigliosa”. Effettivamente, Luisa era bellissima. Quella sera indossava una luminosa gonna lunga con uno spacco vertiginoso che accentuava le curve dei fianchi, con un top corto bianco appena appoggiato su un perfetto ombelico con un piercing a forma di rosa. I suoi capelli scuri ricadevano sulle spalle in morbide onde, incorniciando i suoi orecchini d'oro. Alvaro sospettava che metà degli avventori di La Piedra venisse solo per vederla; se non altro, per lui era così.

      “Stai attento. Non vorrai sprecare le tue migliori battute con me”, scherzò.

      “Tutte le mie frasi migliori sono dedicate a te”. Alvaro si appoggiò con i gomiti sul bancone di legno. “Lascia che ti porti a cena. Meglio ancora, lascia che io cucini per te. Il cibo è un linguaggio d'amore, lo sai”.

      Lei sorrise. “Richiedimelo la prossima settimana”.

      “Lo farò”, promise. “E nel frattempo, posso avere un mojito, per favore?”

      Luisa si girò per preparare il suo drink, e Alvaro intravide la farfalla tatuata sulla spalla sinistra. Questi erano i loro passi di danza, i passi della loro salsa: un complimento, una proposta, un rifiuto, un drink. E altro ancora.

      Alvaro distolse lo sguardo da lei e si guardò attorno al bar, ondeggiando dolcemente al suono della musica vivace. Gli avventori erano un piacevole mix di gente del posto e turisti amanti della musica, per lo più americani, alcuni europei e occasionalmente qualche gruppo di asiatici, tutti alla ricerca dell'autentica esperienza cubana e, con un po' di fortuna, lui sarebbe diventato parte dell'esperienza di qualcuna di loro.

      In fondo al bar scorse dei capelli rosso fuoco, una pelle di porcellana, un bel sorriso. Appartenevano a una giovane donna, probabilmente degli Stati Uniti, sulla ventina. Era lì con due amici, seduti di fianco a lei su due sgabelli da bar. Uno di loro disse qualcosa che la fece ridere; inclinò la testa all'indietro e sorrise ancora di più, mostrando i suoi denti perfetti.

      Gli amici potrebbero essere un problema. La donna dai capelli rossi non indossava alcun anello e sembrava si fosse vestita appositamente per attirare l'attenzione, ma sarebbero stati gli amici a decidere per lei.

      “È carina”, disse Luisa mentre posava il mojito davanti a sé. Alvaro scosse la testa; non si era reso conto che la stava fissando.

      Si strinse nelle spalle, cercando di scherzarci su. “Non è bella come te”.

      Luisa rise di nuovo, questa volta di lui, mentre alzava gli occhi al cielo. “Sei tanto sciocco quanto dolce. Vai da lei”.

      Alvaro prese il suo drink, mentre il suo cuore si spezzava ogni volta che Luisa respingeva le sue avance, sperando di trovare conforto in quella

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