Assassino Zero. Джек Марс

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Assassino Zero - Джек Марс Ein Agent Null Spionage-Thriller

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aggirò lungo il bancone, oltrepassando la ragazza e i suoi due amici senza rivolgere loro uno sguardo. Si sedette a un tavolo alto nella sua visuale e si appoggiò ad esso con i gomiti, battendo il tempo con la musica, aspettando il momento giusto. Poi, dopo un minuto, si guardò alle spalle con scioltezza.

      La ragazza dai capelli rossi lo guardò a sua volta e i loro occhi si incontrarono. Alvaro distolse lo sguardo, sorridendo timidamente. Aspettò di nuovo, contando mentalmente fino a trenta prima di guardarla di nuovo. Lei distolse rapidamente lo sguardo. Lo stava guardando. Non aveva bisogno di altro.

      Quando la canzone finì e il bar scoppiò in un applauso per la band, Alvaro raccolse il suo mojito e si avvicinò alla ragazza, non troppo in fretta, con le spalle dritte, la testa alta e sicuro di sé. Le sorrise e lei ricambiò il sorriso.

      “Hola. ¿Bailar conmigo?

      La ragazza sbatté le palpebre confusa. “Scusami”, balbettò dolcemente. “Non parlo spagnolo…”

      “Dance with me”. L'inglese di Alvaro era impeccabile, ma esagerò il suo accento per sembrare più esotico.

      La ragazza arrossì, e le sue guance diventarono quasi dello stesso colore dei suoi capelli. “Io… non sono capace”.

      “Ti insegno io. È facile”.

      La ragazza sorrise nervosamente e, come Alvaro aveva previsto, guardò le sue amiche. Una di loro scrollò le spalle. L'altra annuì con entusiasmo e Alvaro dovette sforzarsi di non sorridere con troppo entusiasmo.

      “Umm… va bene”.

      Lui tese una mano e lei la prese, le sue dita calde in quelle di lui mentre la conduceva sulla pista da ballo, un'ampia area all'interno del bar in cui i tavoli erano stati allontanati per far spazio agli avventori giunti lì per la musica.

      “Per ballare la salsa non serve conoscere i passi correttamente”, le disse. “È sufficiente seguire la musica. Così”. Quando la band iniziò la canzone successiva, Alvaro fece un passo avanti con il ritmo, dondolandosi sul piede posteriore e tornando subito indietro. I suoi gomiti ondeggiavano vagamente ai suoi lati, una mano ancora nella sua, muovendo i fianchi a ritmo con i suoi passi. Non era di certo un esperto, ma era dotato di un naturale senso del ritmo che faceva sembrare impressionanti anche i passi più semplici.

      “Così?” La ragazza imitò rigidamente i suoi passi.

      Lui sorrise. “Sì. Ma più sciolta. Fai come me. Uno, due, tre, pausa. Cinque, sei, sette, pausa”.

      La ragazza rise nervosamente cercando di apprendere i passi, sciogliendosi progressivamente man mano che diventava più sicura. Alvaro temporeggiò, aspettando che la canzone finisse e che ne iniziasse un'altra prima di posarle delicatamente una mano sul fianco, mentre entrambi ballavano, dicendole: “Sei molto bella. Come ti chiami?”

      La ragazza arrossì di nuovo. “Megan”.

      “Megan”, ripeté. “Io sono Alvaro”.

      La ragazza, Megan, sembrava sempre più a suo agio, cedendo progressivamente al fascino di uno sconosciuto bello e misterioso in quella terra esotica. Tutto stava andando secondo i suoi piani. Lei osò avvicinarsi, chiudendo gli occhi, seguendo la musica come lui le aveva detto, mentre i suoi fianchi ondeggiavano seguendo i passi di salsa, non erano così belli e formosi come i fianchi di Luisa, notò, ma erano comunque attraenti. Alvaro sapeva per esperienza di non muoversi troppo velocemente, di lasciare che la musica e la sua immaginazione prendessero il sopravvento, e poi…

      Si accigliò per la sensazione che lo attraversava. Era insolito che la musica elettronica suonata nella discoteca vicino si sentisse attraverso i muri, ma avrebbe potuto giurare di averla udita.

      Non l’ho sentita, realizzò, l’ho percepita. Sentì uno strano brontolio nel corpo, difficile da identificare e ancora più difficile da descrivere, al punto che sul momento la imputò ai bassi emessi dalle casse troppo potenti del club della porta accanto. La sua compagna dai capelli rossi aprì gli occhi e il suo viso assunse un'espressione preoccupata. L'aveva sentito anche lei.

      Improvvisamente l'intero club cambiò, o sembrò che lo facesse, quando un'ondata di vertigini si abbatté su Alvaro. Inciampò da un lato, riprendendo l'equilibrio solo un secondo prima di cadere. La ragazza americana non fu così fortunata e cadde. A uno a uno i musicisti della band smisero di suonare, e Alvaro poté sentire le grida spaventate degli avventori di La Piedra, accompagnate dal debole battito del basso dalla porta accanto.

      Qualunque cosa fosse, l'avevano sentita tutti.

      Improvvisamente si sentì assalito da un forte mal di testa e da una sensazione di nausea. Alvaro guardò bruscamente alla sua sinistra in tempo per vedere Luisa cadere dietro il bancone.

      Luisa!

      Riuscì a fare due passi prima che le vertigini si facessero sentire nuovamente, facendolo inciampare contro un tavolo. Mentre si ribaltava, del vetro si schiantò sul pavimento. Una donna urlò, ma Alvaro non riuscì a determinare dove si trovasse.

      Cadde in ginocchio e strisciò, determinato a trovare Luisa. Doveva portarle fuori di lì, a costo di trascinarle entrambe per tutto il locale. Ma quando poi alzò lo sguardo, tutto ciò che riuscì a vedere furono sagome sfocate. La sua vista si offuscò. I suoni nel locale in preda al panico svanirono, sostituiti da un solo rumore acuto. I colori vibranti di La Piedra si attenuarono, gli angoli più nascosti diventarono marroni e poi neri, e Alvaro si lasciò cadere sul pavimento, stordito e incapace di sentire altro che quel rumore prima di perdere conoscenza.

      CAPITOLO QUATTRO

      Jonathan Rutledge non voleva alzarsi dal letto.

      Per essere onesti, era un letto fantastico. Era un letto regale, sebbene, rifletté in quelle prime ore del mattino, forse sarebbe stato più appropriato chiamarlo presidenziale.

      Si girò sbadigliando e istintivamente allungò la mano verso lo spazio vuoto accanto a lui. Strano, pensò, come rimanesse sempre dalla sua parte del letto anche quando Deidre era fuori città. Rimase sbalordito dalla rapidità con cui aveva preso la sua nuova posizione; al momento stava viaggiando nel Midwest, facendo contatti per finanziare programmi di arte e musica nelle scuole pubbliche, mentre lui spingeva ulteriormente la sua faccia in un cuscino come se potesse soffocare il suono che sapeva sarebbe arrivato da un momento all'altro.

      E mentre faceva ciò, il telefono vicino a lui suonò di nuovo.

      “No”, si disse. Era il giorno del ringraziamento. Le uniche cose sul suo programma erano graziare un tacchino, fare alcune foto con le sue figlie e poi godersi un buon pasto privato con loro. Perché lo stavano disturbando all'alba di un giorno di vacanza?

      Un forte bussare alla porta lo fece sussultare. Rutledge si alzò a sedere, si stropicciò gli occhi e disse ad alta voce: “Sì?”

      “Signor presidente”. Una voce femminile lo chiamò attraverso la spessa porta della suite padronale della Casa Bianca. “Sono Tabby. Posso entrare?”

      Era Tabitha Halpern, il suo capo di stato maggiore. Se si presentava così presto, questo significava che non portava notizie buone, né tantomeno un caffè.

      “Se proprio devi”, mormorò.

      “Signore?” Non l'aveva sentito.

      “Vieni, Tabby”.

      La

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