La Spia. Juan Moisés De La Serna

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La Spia - Juan Moisés De La Serna

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perdere l’opportunità di sorpassare il nemico, di capire cosa pensasse o come aveva pianificato di agire.

      E tutto questo nonostante il fatto che la popolazione civile non fosse a conoscenza di nulla, certo, è vero che si parlava di tensioni tra le nazioni e che alcuni erano consapevoli delle politiche dall’altra parte della cortina di ferro, ma poco sapevano della “guerra di intelligence” che si svolgeva ogni giorno.

      In un primo momento il nostro lavoro era facile, i messaggi, o venivano tradotti oppure no, tutto lì, quando sono tradotti hanno un significato e possono essere letti, se non si trova la chiave non si può sapere cosa dicono, quindi era facile, si doveva solo provare combinazioni di chiavi fino a che non avesse senso.

      “Alle undici nell’Ambasciata”, “Sotto la statua di …”, o “continuare a sud, vicino al confine…”.

      A volte erano solo frammenti di qualcosa, brevi, istruzioni specifiche, dirette a qualcuno che doveva agire.

      Molte volte, sapevamo cosa significassero e la nostra missione terminava quando restituivamo il messaggio con la traduzione, in modo che l’esercito sapesse chi era stato intercettato e, dopo aver scoperto il suo contenuto, potesse prendere le misure appropriate, che non ci riguardavano, quello non era il nostro compito.

      Ma la cosa più difficile era, quando i messaggi avevano più di un significato, cosa che ci prese tempo capire, perché continuavano ad usare lo stesso metodo, decodificare e inviare.

      Gli alti ranghi iniziarono a lamentarsi dei nostri risultati, “non eravamo accurati”, ci dissero più e più volte. E noi eravamo sorpresi, non capivamo come fosse possibile, eravamo riusciti a decifrare il messaggio, come avevamo sempre fatto. “Dietro il terzo albero” o ” alle undici stesso luogo.”

      Il contenuto era lo stesso di sempre, avevamo fatto la decodifica corretta, nonostante i nostri capi non fossero soddisfatti.

      La vita è così a volte, pensiamo di dare il nostro meglio e che questo sarà sufficiente, e tutto cambia da un giorno all’altro. Ricordo ancora quando dovetti trasferirmi in Spagna, conoscevo la lingua e alcuni costumi dei suoi abitanti, ma poco di più.

      Ho sempre pensato che se fossi stato trasferito sarebbe stato a Washington, o se avessi dovuto andare all’estero sarei andato a Londra o a Parigi, ma a Madrid? Non me lo sarei aspettato! Cosa avrei fatto lì?

      Una decisione che fece solo aumentare la mia curiosità di sapere cosa avrebbe potuto fare un matematico specializzato nella codifica e decodifica dei messaggi in quel paese.

      Cercavo di lavorare il più duramente possibile, facendo del mio meglio, ma il mio lavoro all’epoca continuava a essere scartato dai miei capi. Non perché fallissi, non perché non lo facessi bene, ma perché dicevano: “Siamo andati all’ora indicata, e non abbiamo trovato nessuno! “o “non ci sono truppe dove diceva il messaggio!” il che mi sconcertava, e aumentava la mia pressione.

      Spagna, che paese! cambiò completamente il mio modo di vedere la vita, all’inizio non mi relazionai con nessuno, lasciavo raramente l’ambasciata dove mi sentivo a mio agio, non conoscevo nessuno, preferivo rimanere a leggere, ma presto iniziarono ad invitarmi alle feste e non potevo rifiutare, dovevo partecipare come parte del personale.

      Non ero un amante delle feste, e ancora meno di quella musica ad alto volume degli spagnoli, non capivo quel canto e quella danza perché tutto mi sembrava abbastanza confuso. Ho cercato di ascoltare i testi, guardando al contempo i movimenti appariscenti dei ballerini e non comprendevo il significato di tutto questo.

      Nel giro di pochi mesi, sono stato chiamato a presentarmi al Comando Centrale, un organo dell’esercito spagnolo, e non sapevo molto bene per cosa, ma era un ordine, e si sa, bisogna sempre adempierli senza fermarsi a pensare!

      Non appena arrivai, mi fermarono, non ci capivo niente, mi spogliarono di tutto quello che avevo e mi misero in una cella, dove mi trattennero per diverse ore.

      – Ha scelto un brutto momento per uscire dalla sua ambasciata! – Mi disse un capitano con cui parlai per primo.

      – Che cosa? – chiesi un po’ confuso.

      – Il suo paese è in guerra! – mi disse quella persona.

      – In guerra, ma cosa dice? – Chiesi sorpreso, pensavo di aver capito male.

      – E in quanto militare, non può stare in strada – continuò a dire.

      – No, non ero per strada, io stavo venendo qui…

      – Chi se ne frega! Sta invadendo il nostro paese, e per questo che è in arresto.

      – Invadervi? Con cosa, la mia valigetta e il mio cappello? – dissi sorpreso, non capivo quello che stava accadendo, ho anche pensato che stessi fraintendendo quello che mi diceva, cosa poco credibile, dato che avevo già testato più volte la mia conoscenza della lingua.

      – Meno battute! Qui sono tutti sospettati fino a prova contraria, lei è in attesa di una corte marziale!

      – Ma cosa dice? Mi hanno detto di presentarmi al Comando Centrale.

      – Le hanno detto? Chi glielo ha detto? – mi chiese molto seriamente.

      – Beh, ho ricevuto ordini da Washington.

      – Bene, me li faccia vedere! – richiese impaziente.

      –Non li ho con me, stavo solo facendo quello che mi è stato ordinato, in nessun momento mi è stato detto di mostravi alcun documento.”

      – Sì, lo dicono tutti! Non sanno quello che fanno, eseguono gli ordini. Non è la prima spia che abbiamo dietro le sbarre.

      – Spia? – chiesi sorpreso, mi aveva chiamato spia, non potevo crederci, era davvero un malinteso.

      – Certo! O pensa che l’abbiamo rinchiusa per ammirare le nostre strutture dall’interno? Finché il nostro governo non deciderà cosa fare con voi, resterete rinchiusi, e preghi che il suo governo collabori, perché ‘ altrimenti … …

      – Altrimenti cosa? – Chiesi spaventato, visto che quest’uomo era serio, e che stava per lasciarmi lì.

      – Altri prima di lei, sono stati in questa stessa stanza e con quelle stesse sbarre, e non tutti sono tornati nel loro paese, la maggior parte ci sono serviti come moneta di scambio, ma il resto…

      Ricordo di essere stato molto spaventato all’epoca, ma a proposito di moneta, dove ho lasciato le mie? Devo prendere il pane e non so dove ho lasciato i soldi, non devono essere lontano, forse in cucina, perché il pane è per la cucina.

      Dopo aver controllato ovunque, alzando tutto quello che c’era e aprendo tutti i cassetti mi sono detto: “deve essere sul tavolo da pranzo, perché il pane è per mangiare.”

      Andai lì e guardai ovunque senza successo, un po’ frustrato dalla situazione pensai,” Beh, non sarà importante” e mi sono seduto sul mio divano, accanto a una grande finestra di vetro da dove potevo vedere un piccolo giardino.

      Non so quante volte non ho mangiato perché non mi ricordavo dove avevo lasciato i soldi, nonostante lo avessi scritto nel mio quaderno che portavo sempre con me, solo che a volte dimenticavo anche di guardarlo.

      Questa cosa della

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