Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi

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Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - Francesco Domenico Guerrazzi

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fazione demagogica e le plebi cupide e feroci avrebbero quietato? Da quando in poi i leoni posano prima della preda? E chi avrebbe tutte queste forze contenuto? Per propria loro deliberazione sarebbono per avventura quietate? Questo, io penso, comecchè ne abbia dette delle marchiane davvero, non voglia affermare l'Accusa. Dunque: i Deputati? Ma se l'Accusa ce li dipinge sbigottiti disertare il campo! Noi Ministri? Ma se l'Accusa c'incolpa per non essere fuggiti ancora noi! La Corona? Ma se in quel giorno errava incerta del luogo dove l'avrebbe condotta la Provvidenza! La Guardia Civica? Ma se l'Accusa ci racconta, ch'ella riponeva la baionetta nel fodero! La Milizia stanziale? Ma se senza ordini non si muove; e chi glieli potesse dare mancava, per non dirne altro! I Cittadini di parte avversa? Ma se il Governo nel 22 febbraio non gli salvava dal furore della moltitudine, questa gli avrebbe sbranati! — Chi dunque ha impedito che nel giorno ottavo di febbraio la rivoluzione allagasse tutte le terre della Toscana nella pienezza del suo trionfo?

      O Giudici, con quella mano stessa con la quale ora vi basta l'animo scrivere accuse contro la mia costanza, quali non avreste vergato improperii al mio nome, se per viltà fuggendo vi avessi lasciato in balía alle furie rivoluzionarie? O Giudici, ditemi, la mano con la quale tracciate le accuse disoneste, non è quella dessa che scrisse per me uno dei trentamila e più voti, co' quali il Compartimento Fiorentino volle onorare i miei travagli sofferti in pro del pubblico ordine? Ah! voi sfondate gli ombrelli adesso ch'è passata la pioggia? Come padri di famiglia, io vi tenea più provvidi.

      Stupendo a dirsi, quanto a considerarsi angoscioso! Giustizia mi viene donde io non l'aspettava. Nel Giornale intitolato La Civiltà Cattolica, fascicolo 27, a pag. 366 leggo: «Dal 12 aprile 1849, che il Guerrazzi venne arrestato nel Palazzo Vecchio, e chiuso poi nel Forte di Belvedere, ha passato i suoi giorni prima nella Casa di Forza di Volterra; quindi nel Carcere penitenziario delle Murate di Firenze, ed ivi tuttora si trova.

      Grande sarà la curiosità pubblica di questi dibattimenti. È forza però convenire, che a lui ed alla sua stessa ambizione,» (se ambizione di far del bene, forse non crederò mi disconvenga la parola), «non che alla penetrazione dello ingegno, dovè la Toscana non essere caduta allo estremo dei disordini e delle rovine demagogiche. Ed egli ben lo sa; anzi è fama avere detto, nell'atto che fu preso: — Se i Fiorentini avessero due dita di cervello, e mezza oncia di gratitudine, mi dovrebbero alzare una statua.» (Questo già non dissi, ma nulla in sè contiene, che con alquanto più di modestia non senta avere potuto dire io.)

      Per siffatto modo i Gesuiti rendono a me quella giustizia, che Magistrati Toscani mi hanno acerbissimamente negata fin qui. E sì che i primi, davvero, non mi vanno debitori di nulla, mentre i secondi, io penso, mi dovrebbero pure qualche cosa! Io quante volte ho posto l'articolo dei Reverendi Padri a confronto con gli atti dell'Accusa, non senza riso mesto ho ricordato quel detto romano che andò su per le bocche degli uomini, quando Urbano VIII dei Barberini spogliava del metallo corintio la vôlta della Basilica di Agrippa rispettata dagli Unni e dai Goti:

      Quod non fecerunt Barbari fecere Barberini!

      Dopo questa storia di fatti, desunta dai Documenti autentici, diventa più chiara la quistione, imperciocchè ella deva formularsi così: fui io provocatore o complice delle macchinazioni della parte repubblicana precedenti il giorno 8 febbraio? Il Giurì della pubblica coscienza, io confido, dirà: no. Allora ne scende per necessità questa deduzione: che se non fui complice, ne fui oppositore a un punto e bersaglio.

       Mia situazione in Piazza.

       Indice

      Vi rammentate di Mazzeppa legato sul dorso del cavallo indomito? Tale io era fatto, per opera dei faziosi, di faccia al Popolo, ed anche per gli scongiuri della stessa Camera dei Deputati. La rivoluzione mi stava davanti con le sue mille teste, con le sue mille braccia, palpitante e smaniosa. Quanto possano il sospetto e la paura sopra le moltitudini agitate ogni uomo che legge storia conosce. Plaudivano adesso le genti, ma da un punto all'altro disposte a diventarmi prima carnefici che giudici. Intanto inquisitori, a modo dei Veneziani, mi si stringevano al fianco. Dirò cosa non credibile e vera, che, avendo retto il Popolo di Livorno e quello di Firenze, mi è sembrato il primo, quando imperversa, a trattarsi più agevole del secondo; della quale cosa ricercando sottilmente la ragione, mi parve trovarla in questo: che il Popolo di Livorno, per natura impetuoso, trascorre in escandescenza per motivi lievissimi e con molta facilità; ma o tu lo lasci sfuriare, e quel fuoco per difetto di alimento si estingue subito; o ti riesce gittarvi dentro una parola di senno autorevole, e, non altrimenti che per acqua, si spegne del pari: il Popolo fiorentino, all'opposto, è mite d'indole, arduo a muoversi, però causa grande ed eccitamento potentissimo si richiedono a spingerlo; ma spinto che sia, la difficoltà di acchetarlo sta in proporzione della difficoltà di agitarlo: le parole non bastano; procede concentrato e feroce. Considerai la insidia dei Repubblicani che mi si tenevano come vincitori davanti, quasi volessero dirmi: «ti faremo noi Repubblicano per forza.» Niccolini allora comandava onnipotente; una sua accusa poteva perdermi; ed io lo aveva, in pubblico, mortificato e costretto a tacere. L'accusa veniva spontanea; chè a colorarla bastavano, e ce ne avanzava, le circostanze dell'essermi io sempre mostrato avverso alla Repubblica, parzialissimo del Principato Costituzionale; le voci sparse della benevolenza singolare del Principe; i perfidi sospetti, non senza frutto, insinuati tanto a Livorno che qui; finalmente il contrasto pertinace opposto ai voleri del Popolo nella Seduta della Camera. Reputano i miei Giudici subdolo trovato di difesa, se, mentre tanti e poi tanti appena curati, o non curati affatto, addussero a giustificazione dell'operato, e loro valse, il pensiero di provvedere alla propria sicurezza, affermo che ancora io badai un poco a me, io che mi ero posto a duro cimento e mi vedevo circondato da gente nemica e da Popolo sospettoso. Io aveva detto: «Chi si sente capace di operare in guisa diversa, sorga e mi accusi.» I Giudici sono sorti e mi hanno accusato: io devo confessare che ammiro il più che spartano coraggio di loro. In quanto a me, sono uomo, nè cose sopra natura so fare: non temo la morte, imperciocchè tosto o tardi, e tutti, e in breve, dobbiamo morire; pure, da morte sanguinosa e senza onore repugno; nè per leggere che io abbia fatto storie mi venne fin qui incontrato uomo cui dilettasse cadere sotto ignobile ferro. Io ero solo. Il Municipio, rappresentato dall'egregio Gonfaloniere, pregavami a non abbandonare in quel pericolo la Patria, e prometteva valido aiuto. Così pregava eziandio la Guardia Civica per l'organo del suo degno Generale, che si affrettò, in Senato, di aderire al voto del Popolo. Il personaggio tenuto come Capo della Commissione governativa del 12 aprile, nell'8 febbraio pronunziava parole gravissime per giustificare quello che il Popolo esigeva. — Io non incolpo nessuno; solo vorrei che quello che bastò ad altri o non costretti, o poco, potesse bastare a me, sottoposto a ineluttabile pressura.

      Nè si trattava di me solo, ma, nell'universale sbigottimento, meco dovevano salvarsi i miei compatriotti tutti, la pericolante società.

      Qui cade in acconcio favellare dell'accusa appostami nel § 52 del Decreto del 7 gennaio 1851, e ripetuta in seguito, di non avere abbandonato la posizione che poteva strascinarmi o farmi perseverare nella via del delitto.

      Non vi era luogo a renunzia: non si offeriva lo ufficio come cosa che potesse rifiutarsi o accettarsi. La moltitudine imponeva, e fu dimostrato. Guardia Civica, Municipio, Deputati instavano a salvare la vita e le sostanze dei cittadini. Quando il naufrago chiede soccorso, possiamo ricusarlo per debito di coscienza? Se curando il mio proprio interesse avessi duramente respinta la preghiera, e se questa durezza avesse partorito i mali che pur si temevano, e che sarebbero stati inevitabili, in qual parte di mondo potrei sollevare io adesso la faccia svergognata? — Dove sarebbero andati i familiari del Principe, ai quali, con Decreto del 10 febbraio 1849, d'accordo con P. A. Adami, riuscii a mantenere le pensioni? Dove gl'impiegati? dove voi stessi, o Giudici che mi accusate? Ma lascio della ingratitudine atroce: e in qual modo potevo sottrarmi io? E non avete saputo che nè notte nè giorno mi abbandonavano? Che, pieni di sospetto, specialmente nei primi tempi, mi seguitavano come ombra? Voi lo avete saputo,

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