Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi

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Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - Francesco Domenico Guerrazzi

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ponessero a morte! A Roma...? In tempi di rivoluzione, difficile e piena di pericoli è la fuga, anche apparecchiata da lunga mano. Il Decreto dovrebbe sapere qual maniera di gente stanziasse allora in Firenze; Romagnoli e Romani, che a rinnuovare la strage di un supposto Rossi avrebbero reputato ottenerne merito presso gli uomini e presso Dio: e senza uscire di Toscana, il Frisiani, caduto in sospetto, quale acerbissimo fine non ebbe egli a patire!

      Egli è impossibile giudicare di cose politiche, senza lo studio o la pratica degli avvenimenti politici. Un uomo, comecchè mediocremente versato nelle storie, consapevole del come il Popolo commosso proceda inesorabile nella sua vigilanza, non avrebbe domandato: Perchè non fuggiste? E molto meno poi della omessa fuga avrebbe fatto accusa. Questo uomo si sarebbe sovvenuto, che non riuscì la fuga a Carlo I, nè a Giacomo II, nè a Luigi XVI. Carlo II si salvò per miracolo nascosto nella quercia reale: delle regie, e pontificali fughe dei più recenti tempi a me non importa discorrere; basti rammentare che non vennero operate senza difficoltà, e precauzioni grandissime. Nella prima rivoluzione di Francia (e correva sempre l'anno 1789), il barone de Bechman, maggiore del reggimento Guardie svizzere, era strascinato alla Comune solo perchè la sua carrozza, scendendo il Ponte Reale, volse a sinistra dalla parte di Versaglia. Bonseval dal Municipio di Villenasso è sostenuto prigione; Cazalès, fuggendo l'Assemblea nazionale, si trova arrestato a Caussade; l'abate Maury, quantunque travestito, viene fermato a Peronna; all'Aura di Grazia traducono in carcere il duca de la Vauguyon e il suo giovine figliuolo, che pure mentivano abito, professione e nome. Delle fughe tentate e capitate male più tardi, basti accennare appena: Roland costretto a trapassarsi il cuore con la propria spada, e Condorcet a prendere il veleno; dei profughi Girondini ve ne furono perfino taluni divorati dai lupi; al solo Louvet riuscì lo scampo mercè le cure portentose di amantissima donna. Ecco come si riesce a fuggire dalle rivoluzioni. Veramente, se i Giudici pensano che per me si potesse abbandonare lo ufficio con la medesima comodità con la quale, giunti gli ozii autunnali, mandasi pel fattore onde ne aspetti col calesse alla Stazione della strada ferrata, e ci conduca in villa a far vendemmia, hanno ragione di appuntarmi per la mia permanenza: ma la cosa non è così; e la storia ammaestra come nè anche ai Principi, potenti di danari e di aderenze, sia riuscito talvolta fuggire; sempre poi con pericolo. Il cittadino privato, in cosiffatte fughe, perde o la vita o la fama, e sovente ambedue.

      Pietro Augusto Adami dal Decreto del 10 giugno 1850 venne a ragione scusato della sua permanenza in ufficio per le mie insinuazioni, che lo impressionavano di vedere ridotta a mal partito la casa e famiglia sue per l'enormezze dei faziosi: ora questi timori non partecipava io, e bene altramente gravi per me? Forse si dirà (e così mi bisogna procedere, perchè quale vituperosa supposizione ha risparmiato l'Accusa a mio danno?) che senza sentirle simulava io coteste paure per inspirarle in altrui? Or come, anche all'amico, anche all'uomo che conviveva meco? E quantunque io glielo indicassi, non aveva egli senno, non aveva occhi ed orecchi per conoscere se io gli dicessi il vero? Queste insidie noi, la Dio grazia, non siamo usi a concepire nemmeno, e tanta pravità supererebbe perfino la immaginazione infelice di chi per mestiere maligna su la natura umana; nè il Decreto la suppone nemmeno. Dunque si ha da ritenere, che siffatte apprensioni palesate fra amici, nella intimità delle domestiche mura, dovessero essere troppo bene sentite, e pur troppo vere. Ed io non avevo casa allora, non avevo famiglia allora (ahimè! adesso mi sono state spietatamente rovinate, e disperse), non ho cuore io come l'Adami? La mia forza è ella come la forza delle pietre? la mia carne è ella di rame?[186] — Oh! non è questo il solo punto dove con inestimabile amarezza ho veduto che i medesimi Giudici adoperano due pesi e due misure. Pietro Augusto Adami è scolpato per essere rimasto in ufficio, dietro le istanze che gli muovevano spettabili persone, timorose che la Finanza cadesse in mani pessime. E me non pregarono? No? Me la cittadinanza àncora ultima di speranza chiamava; a me i servitori stessi di S. A. come a rifugio estremo ricorrevano; me impiegati principalissimi, mantenuti tuttavia in carica, scongiuravano a non disertare lo ufficio con rovina sicura del Paese e di loro; nè questo già mi dicevano in faccia per piaggeria, ma nelle private lettere lo predicavano ai lontani, ma nei penetrali della famiglia, ma nei fidati colloquii con gli amici non rifinivano ripetere; e quando più tardi, indignato degl'improperii di parte repubblicana, dichiarai volermi dimettere, la grande maggiorità dell'Assemblea per lunghissima ora non supplicò, che io non volessi mancare nel maggiore uopo al bisogno della Patria?[187] — Del Municipio, della Guardia Civica e dei Deputati, ho detto qui sopra. Oh! chi sa, che quelle mani... — ma che dico io, chi sa? — quelle mani stesse, che vergarono la ingrata Accusa, scrissero il voto di fiducia a mio favore, volendo allora tributarmi l'onorevole approvazione pel mio operato! — Ma ahimè! il sentimento della gratitudine s'inaridisce più presto della lacrima dell'erede... Io, invitato ad usare le mie scarse facoltà in benefizio del mio Paese, non ho mai rifuggito, comecchè con mio carico grande; e se nel 12 aprile io non lasciai Firenze, e' fu perchè mi pregarono interpormi, onde Livorno aderisse di quieto alla restaurazione del Principato Costituzionale: poi si scoperse essere un tranello cotesto; ma il mondo dirà da qual parte stia la vergogna, se dalla parte dei venerabili personaggi che dello amore di Patria fecero insidia, o dalla mia, che mi lasciai prendere a quell'amo!

      I Giudici commendano Adami per avere conservato gl'impiegati: ma io feci di più; un segretario antico e benemerito del Ministero dello Interno, Ambrogio Piovacari, me istante, fu promosso a Consigliere di Stato, e nel suo ufficio posi la persona ch'egli stesso mi designava. Frequenti lettere anonime mi confortavano, ed anche minacciavano, a dimettere un altro Segretario, il Signore Allegretti. Io gli mostrai le lettere, gli dissi reputarlo, qual è, onesto, e, per quanto stesse in me, volerlo conservare in ufficio. Altra lettera anonima mi notiziava agitarsi ai miei danni Ferdinando Fortini; io gli mandai per suo governo il foglio accusatore, certificandolo della mia perenne amicizia.

      E la mia lettera suonava in questa sentenza: «Amico. Se io credessi vero quanto nell'acclusa lettera si legge, io non te la manderei. Da quella vedrai come in questi tempi infelici la calunnia non risparmia te nè la tua famiglia. Se puoi argomentare da quale mano nemica muove cotesto foglio, badati. In quanto a me è inutile dirti che simili infamie non valgono a farmi mutare opinione intorno ai probi uomini, fra i quali novero meritamente te. Fammi grazia salutare il Sig. Duchoqué, il quale ebbi l'onore di conoscere in circostanza non troppo piacevole, ma non per cagione sua. Addio.

      «Firenze, 20 ottobre, 1848.

      «Aff. Guerrazzi.

      «Al Sig. Avv. Ferdinando Fortini Regio Procuratore Firenze.[188]»

       A certo altro facevano guerra (Stefano Stefanini Commissario degli Ospedali di Livorno) e n'era pretesto l'affezione al Governo passato, gli onori ricevuti da quello; motivo vero la cupidità della sua carica onoratissimamente esercitata. L'egregio uomo tra le angoscie della iniqua persecuzione smarriva l'animo, e a me per aiuto scriveva. Ecco come io lo confortava: «Amico carissimo. — A questa ora avrai pace, lo spero, e poi lo voglio. Ed ho potuto, e voluto, quando ero nulla; pensa se adesso! — La mia amministrazione sarà breve o lunga, poco importa, ma sarà di giustizia. Dunque rispondimi se ti lasciano tranquillo. — Eccoti una supplica. Se merita, ti offro modo di fare un bene, e conciliarti favore; — se non merita, — nulla: Addio.»

      Dirò altrove del giovane Boiti per sospetto degli Arrabbiati dovuto allontanare, e poi da me restituito in ufficio.

      A tutti i servitori del Principe curai si mantenessero gli stipendii, e fu già detto, col Decreto del 10 febbraio 1849.

      I sussidii alle molte famiglie povere elargiti dalla Corte di S. A. ordinai si continuassero.[189] Finalmente provvidi affinchè in modo stabile le sorti degl'impiegati della Corte si determinassero.[190]

       Membro del Governo Provvisorio, impiegai perfino Pretore al Porto Santo Stefano chi venne ad arrestarmi un anno avanti! — E basti..... perchè è pure ignobile, Dio mio! — è pure infelice la condizione ove la necessità della difesa mi costringe a spogliare il benefizio del suo divino pudore.[191]

      Lodano i Giudici meritamente Emilio Torelli, il quale per lungo tempo mi servì

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