La plebe, parte III. Bersezio Vittorio

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La plebe, parte III - Bersezio Vittorio

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Maurilio?

      I prigionieri si erano alzati tuttidue; Maurilio fece un passo innanzi e disse non senza un palpito nel cuore e un lieve tremito nella voce:

      – Sono io.

      – Venga meco.

      Maurilio volse verso Giovanni uno sguardo desolato:

      – O cielo! Ci vogliono separare.

      Selva si cacciò avanti e interrogò il secondino.

      – Dove avete da condurre il mio compagno?

      – Dal signor Commissario.

      – Perchè?

      Il carceriere rispose crollando le spalle:

      – Che so io? Non domando e non mi si dànno di queste spiegazioni… Animo, su, muoviamoci.

      Maurilio si gettò nelle braccia di Giovanni.

      – Aimè! Disgiungendomi da te mi si toglie la maggior parte della mia forza.

      – Coraggio, coraggio: gli susurrò alle orecchie Selva abbracciandolo. Non sarà che per interrogarti, e poi ti restituiranno alla mia compagnia.

      E con un bacio, come di addio, gl'insinuò nell'orecchia, tanto piano che Maurilio stesso appena le udì, le seguenti parole:

      – Nega tutto e sempre, o piuttosto taci.

      Il secondino accennava impazientarsi. Maurilio si staccò dalle braccia dell'amico e seguì l'uomo che lo era venuto a prendere, scorta al quale stavano due guardie, i bottoni della cui uniforme mandavano qualche riflesso di luce nell'oscurità del corridoio. Alle spalle di Maurilio fu richiuso lo spesso battente chiovato di ferro col medesimo stridere, col medesimo scricchiolìo di catenacci e di serrami.

      Quando furono giunti all'uscio del gabinetto del Commissario, le guardie con uno spintone fecero entrar primo Maurilio, e dissero:

      – Ecco il prigioniero.

      – Sta bene: rispose la voce burbera del signor Tofi: andate.

      Guardie e secondino sparirono; il nostro protagonista rimase timido ed esitante a quel posto, non osando levar gli occhi e sentendo nel petto battergli il cuore sotto la stretta d'una paura che cercava invano di dominare.

      Ma prima che egli od altri avesse tempo di pronunziare una parola, appena partite le guardie, una persona si slanciò verso Maurilio e gli gettò le braccia al collo ed una voce amichevole e soave lo salutò chiamandolo per nome con infinito affetto.

      Il giovane sentì dileguarsi il turbamento della sua paura, ebbe di botto l'animo rinfrancato trovandosi non senza molta meraviglia sul seno del vecchio parroco, del maestro e del protettore della sua infanzia.

      – Lei!.. Lei qui, Don Venanzio: esclamò Maurilio con tanta commozione che appena poteva parlare. Oh! la è proprio il mio buon genio che la manda.

      – Sì: disse il parroco: è la Provvidenza che ti vuol bene, e mi concede sempre la grazia di poterti soccorrere. Gli è un presentimento che mi ha spinto a venire a Torino; e qui ho trovato subito chi ha potuto farmiti restituire. Sono venuto a prenderti: tu sei libero, ed usciremo insieme da questo brutto luogo.

      Un brivido di acuto piacere corse tutte le fibre del giovane.

      – Libero: esclamò egli sentendosi quasi allargare i polmoni.

      Non potè aggiungere altra parola; ma levò lo sguardo al cielo con espressione di commossa riconoscenza. Egli era persuaso che lo spirito benigno, il quale vegliava sul suo destino, era quello da cui era stato ispirato a Don Venanzio il presentimento da lui accennato, era stato suggerito il mezzo di venirlo a salvare.

      Don Venanzio, abbracciato, baciato e ribaciato Maurilio, ne prese il capo colle due mani e lo stette guardando con amorosa attenzione e con viva sollecitudine. Dall'ultima volta che quei due s'eran visti, nella faccia espressiva del giovane erano ancora, e non di poco, accresciutesi le traccie della sofferenza e del malessere che a quel corpo indebolito cagionavano l'incessante travaglio dell'anima, la soverchia tensione dello spirito e il continuo lavorìo del pensiero. Più terreo il color delle guancie, più affondate le occhiaie, più sporgenti i zigomi nel macilento viso, più spiccate le rughe precoci alle tempia ed agli angoli della bocca, più curvo il petto ed abbandonato il portamento.

      Il buon parroco, intenerito, lo baciò ancora una volta su quella vasta fronte incoronata dai nerissimi ispidi capelli come da una scura aureola, ed illuminata nel suo pallore dalla luce del pensiero.

      – Mio povero Maurilio, disse Don Venanzio con accento di sì dolce affetto che più non avrebbe potuto la voce d'una madre. Tu hai sofferto ancora, tu soffri?

      Il giovane rispose con un mesto sorriso.

      Ma ad impedire ogni effusione suonò in quel momento la voce aspra e burbera del signor Commissario.

      – Le vostre confidenze ve le farete poi in più acconcio luogo di qua. Per ora, giovinotto, voi siete libero, e ringraziate la clemenza di S. M. che invece di mandarvi a vedere il sole a scacchi a Fenestrelle, vi fa la grazia di lasciarvi andar a dormire nel vostro letto. Ma frattanto questo piccolo incidente vi serva d'avviso! Fate senno, dissensato che siete! Ficcatevi un po' di sugo in quel cervellino di passero che vuol menare a bere le oche; e invece di pensare a cambiare le cose del mondo e riformare il Governo, pensate ad essere buon suddito, buon cattolico e riformare a voi la testa sconclusionata. Vedete i bei capi che pretendono dettar la legge a chi comanda e far camminare il mondo a loro capriccio! È nell'ospedale dei pazzerelli dove meritereste d'essere rinchiusi, poverini di teste bruciate… D'ora innanzi badate a voi! Non crediate di poterla fare impunemente in barba alle autorità ed alle leggi. Noi teniamo gli occhi su di voi e vediamo tutto, quasi quasi i vostri pensieri eziandio. Se questa volta l'avete scappolata tanto a buon mercato, un'altra non sarà più così. E sappiate, impertinenti e stupidi animali di rivoluzionari, che S. M. il Re di Sardegna ha abbastanza carceri e carabinieri, e se occorre palle e schioppi da mettere alla ragione quanti ne sieno di voi e dei vostri pari… Ora andatevene con Dio, e pregate il vostro santo protettore che non m'abbiate più a comparire davanti.

      Maurilio ascoltò l'intemerata a capo chino e senza dare il menomo segno di quello che sentisse dentro sè; ma il buon Don Venanzio non nascose nella sua aperta e schietta fisionomia, tutto l'effetto di paura che in lui produssero le parole del Commissario.

      – Andiamo, andiamo, diss'egli sollecito, prendendo il braccio del giovane, appena il signor Tofi ebbe finito. E il signor Commissario non dubiti che non daremo mai più ragione di malcontento all'autorità.

      Maurilio però non si mosse, non ostante che Don Venanzio, a cui pareva mill'anni d'esser fuori da quel luogo, facesse a trarlo verso la porta.

      – Signore, disse Maurilio al Commissario, quando venni arrestato, mi si sequestrarono delle carte… un manoscritto…

      – Ebbene? lo interruppe bruscamente il signor Tofi con un tale sguardo che avrebbe agghiacciata la parola anche sulle labbra d'un ardimentoso.

      – Vorrei pregarla, balbettò Maurilio, se si potesse di dar l'ordine che mi fosse restituito…

      – Un corno! gridò il Commissario. Quello scartafaccio è nelle mani di S. E. il Governatore che ne farà quel che vorrà…

      Il giovane accennò volere aggiungere ancora una parola; ma

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