La plebe, parte III. Bersezio Vittorio
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Don Venanzio aveva di nuovo nella sua fisionomia da galantuomo un'espressione di scontentezza:
– Io non me no intendo bene, diss'egli, ma questo non mi pare un lavoro serio.
– Seriissimo: rispose Gian-Luigi: perchè è quello che frutta di più.
– E onesto? soggiunse il prete.
– Certo! Il signor Bancone e i pari suoi sono gli uomini più stimati del mondo.
Don Venanzio si curvò nelle spalle.
– Sarà, conchiuse, ma io preferirei vederti medico nel nostro villaggio, guadagnar poco e far molto bene a quella povera gente.
Gian-Luigi interruppe vivamente con una strana intonazione nella voce:
– Oh di far bene alla povera gente io mi occupo di molto, e non solo alla povera gente del villaggio dove fui allevato, ma a tutta quella delle nostre contrade, e non negli angusti limiti soltanto che sono concessi ad un povero medico di campagna, ma in quelli fra cui spazia l'azione di un governo.
Don Venanzio guardava il giovane con tanto di occhi.
– Ella non mi comprende, soggiunse Gian-Luigi sorridendo, nè mi può comprendere, nè io mi posso per ora spiegare di meglio. È un segreto lavoro per cui sono venuto a cercare la collaborazione di Maurilio, e per cui quindi gli chiedo un colloquio sull'istante da solo a solo.
Il vecchio sacerdote guardò bene in volto l'uno e l'altro dei due giovani coi suoi occhi limpidi e sereni, e poi disse con quell'accento di paterna bontà che gli era naturale:
– Non capisco che cosa possa essere e non voglio capirlo… Possiate voi veramente essere così bene ispirati e così addotti sopra una buona via da ottenere alcun bene ai miseri che soffrono; ma permettete al vostro vecchio pastore di ricordarvi un consiglio di cui mi pare pur troppo abbiate bisogno ambedue; quello che nulla si fa di bene se non si procede col santo timor di Dio… Ora vi lascio soli, ed io con quel tuo amico, Maurilio, se gli è di comodo, andremo a trovar quella vecchia di cui ci hai dato l'indirizzo.
Maurilio ringraziò vivamente il parroco che così volesse far subito; Selva, che non aveva in quel punto occupazione nessuna, acconsenti sollecito di accompagnare Don Venanzio, e mentre i due trovatelli avevano il colloquio che vedremo nel capitolo seguente, Giovanni ed il parroco si recavano in casa la Gattona.
CAPITOLO VIII
Appena rimasti soli Gian-Luigi e Maurilio, il primo s'accostò vivamente al secondo e incominciò con vivacissimo accento:
– Maurilio, io ti leggo nell'animo. Il tuo freddo silenzio mi parla più chiaro d'ogni parola. Tu diffidi di me; mi sospetti e sei presso a disistimarmi… Tu mi hai visto ieri sera colle vesti del povero nei ritrovi del povero; poi collo sfoggio del ricco nel convegno elegante dei gaudenti del mondo, e ti domandi: che cosa son io, che faccio? in qual razza di Proteo si è tramutato il tuo compagno d'infanzia? Ebbene, gli è verissimo: sono un mistero, e lo sono per tutti così bene che pochi o nessuno sospettano pure in me, sotto la maschera dell'uomo gaio e leggiero di società, sotto le spoglie del damerino e dell'epicureo, l'individualità d'un proposito e la stoffa d'una volontà. Vengo a svelarti questo mistero… non per platonico trasporto d'amicizia, ma perchè – te l'ho detto ieri sera – perchè la mia risolutezza e l'audacia de' miei disegni hanno bisogno del tuo cervello.
Fece una pausa; Maurilio, sempre silenzioso, sostenendo colla sinistra delle sue grosse mani la fronte vasta e protuberante, abbassò la destra verso il compagno con atto che voleva significare:
– Parla.
Gian-Luigi trasse un profondo sospiro come uomo che ha il petto gonfio da qualche non lieve emozione, e coll'accento spiccato e misurato di chi studia le sue parole od anzi meglio dice parole studiate e preparate, continuò:
– Con te non occorre usare il linguaggio che bisogna parlare a quel buon Don Venanzio. Questo sant'uomo ha sempre vissuto in un guscio, e la sua esperienza e la scienza delle cose del mondo non eccedono la ristrettissima cerchia di un'anima che non ha mai avuto passioni, d'un cervello che non ha mai avuto idee al di là di quelle permesse dal catechismo. Tu soffri delle ingiustizie della sorte assodate nell'assetto sociale, egli in ogni fatto benedice il volere di Dio: tu hai capito e capisci la necessità della riforma, anzi della rivoluzione nell'ordinamento attuale dell'agglomerazione umana: egli non sente e non apprezza che la impotente e miserabile virtù della rassegnazione. Se io venissi a dire a quel buon vecchio: la necessità di cambiare quest'organamento che soffoca i tre quarti delle intelligenze umane, che costringe alla miseria i tre quarti degli uomini, si è fatta sentire su me più che su altri; ha pesato con mano più cruda su di me, quasi appunto per suscitare nella mia personalità appassionata uno stromento della rivoluzione della plebe, per crearmi tribuno e vindice del proletariato, per farmi sorgere apostolo e guerriero dell'emancipazione delle classi povere, ed io ho accettato il carico e mi sono sobbarcato all'impresa, Don Venanzio mi griderebbe spaventato il vade retro Satanas…
Maurilio l'interruppe e disse con voce lenta, fiacca, quasi svogliata:
– Ed è codesto che sei venuto dire a me?
Gian-Luigi guardò ratto intorno a sè, come per assicurarsi ancora che nessuno potesse udire: poi si curvò verso il compagno e rispose con forza:
– Gli è questo.
Maurilio scosse leggermente la testa.
– Una molto superba parte ti sei assunto: disse egli col tono medesimo di prima. Come ti sei sentito tu consacrare cosiffatto campione? Qual cosa o chi ti assicura in tanta impresa? Come Giovanna d'Arco, chiamata per salvar la Francia, hai tu sentito le voci del Cielo chiamarti per redimer le plebi?..
Gian-Luigi interruppe con impazienza:
– È ella un'ironia codesta?.. Cotale risposta non mi sarei aspettata da un compagno d'infanzia come sei tu e da un'intelligenza qual'è la tua… Ebben sì; le ho sentite le voci del Cielo. Le ho sentite nella mia anima, nelle torture che io ho provato, e son quelle che provasti anche tu, nelle miserie di tanta parte del genere umano, nella crudele ingiustizia del mondo che rigetta dalle sue gioie il povero ed il debole, che per lasciarmi penetrar di straforo nell'oasi de' suoi godimenti mi ha obbligato ad infingermi e mentire. Noi empiamente condannano i costumi e le leggi: queste fondamento a quelli: bisogna rovesciare le une e gli altri.
– Rovesciare! rovesciare!.. Tu ne parli con molta agevolezza! L'edifizio non è così corroso alle fondamenta che un urto basti a sconquassarlo. Posa sopra una larga base cui, non foss'altro, l'abitudine ha contribuito a formare.
– Questa base siamo noi, i poverelli, i derelitti, i miserabili. Gli è sulle nostre spalle opprimendoci ch'esso regge. E se noi ci levassimo?
– Come farlo?
– Ecco quello ch'io ho studiato e preparato; e che ti dirò se tu vuoi essermi compagno all'impresa.