La plebe, parte III. Bersezio Vittorio

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La plebe, parte III - Bersezio Vittorio

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credette bene raccontare a Selva, a Maurilio ed al dottore Quercia che lo avevano ascoltato e gli avevano risposto, come lì sotto presso la Ghita avess'egli visto adesso adesso quel cotal poliziotto che era venuto alla fabbrica e che con tanta prepotenza aveva agito verso Giovanni.

      Quercia corrugò minacciosamente le sopracciglia e lasciò vedere io mezzo la fronte quella sua riga caratteristica.

      – Ah sì? diss'egli. Questo è un fatto di cui bisogna tener conto.

      E fra sè pensò:

      – Sempre quel medesimo!.. Bisogna ad ogni modo che Graffigna me ne liberi e il più presto possibile.

      E in quel momento medesimo Graffigna stava appunto comandando a Pelone di fare in modo da trattenere il poliziotto nell'osteria fin oltre la mezzanotte, per avere all'uscita di lui dalla taverna più facile il modo di accoltellarlo.

      – Guardatevi bene, continuava Quercia: io conosco le arti di siffatta gente. I discorsi di codestui colla portinaia non sono senza un perchè. Io ci scommetto che in quella donna questo agente poliziesco si è fatta una esploratrice: e forse forse l'arresto vostro e quello di Benda già furono cagionati dalle ciarle di lei.

      Bastiano, all'udire queste parole, scosse il capo e voltò gli occhi all'insù con espressione di sdegno profondo, mentre la sua mano accarezzava il pome di quel grosso bastone che soleva portar seco sempre come fido compagno.

      – Che sì che quella gazza maledetta n'è capace: diss'egli. Una lingua che non tacerebbe nemmanco sui carboni ardenti… Ma corpo del diavolo! Adesso vado a dirgliene io quattro!..

      Discese le scale furibondo ed entrò coll'impeto d'una catapulta nella loggia della moglie. Il pensiero che le ciarle di costei avessero potuto nuocere al padroncino lo mettevano fuor di sè dalla collera.

      La Ghita, da parte sua, non era in uno dei momenti più acconci per tollerare in santa pace le invettive di chicchessiasi e specialmente del marito. La comparsa di lui in punto così inopportuno l'aveva sdegnata come una vera improntitudine ed impertinenza dell'uomo, a suo riguardo. La vista di Bastiano, sempre spiacevole alla brava moglie, in quell'occasione erale stata spiacevolissima e ce l'aveva con lui maledettamente.

      Bastiano, come entrò senza cerimonie nel camerino, così saltò senza preamboli nel mezzo del discorso.

      – Brutto mostro d'una linguaccia perfida, degna delle staffilate! Che sì ch'io non so chi mi tenga dal farvi assaggiar ben bene di questo randello traverso le spalle, per mostrarvi a tenerla a segno una volta…

      La donna inviperita non potè tollerare più a lungo in silenzio. I cannelli della sua cuffia madornale fremevano d'indignazione; le guancie erano diventate color di mattone cotto e il naso color di un peperone d'Asti. Bastiano gridava forte colla sua voce da basso profondo; ma la Ghita si cacciò a gridare ancor più forte colla sua voce strillante insieme e nasale.

      – Oh malnato d'un villanaccio senza sugo e senza creanza!.. Che cos'è questo tono da spaccamontagne? Che cosa sono queste parolaccie da facchino?.. Credete voi di farmi paura con quel ceffo da orso, prepotentone che siete?.. Non è più il tempo in cui, povera donna, mi toccava star sotto un bestiale di marito… So farmi rispettare e so dove trovar protezione contro le violenze d'uno scellerato…

      Cominciando in questo gentil modo il discorso voi potete agevolmente indovinare qual corso tenesse. I due contendenti ebbero in breve esaurito tutto il dizionario degl'improperii, e ciò in tono tale che tutte le comari del vicinato, scacciate dalla venuta di Barnaba, tornarono nel camerino ansiosamente curiose.

      La Ghita che aveva già avuto cotanto coraggio da sola contro il marito, figuratevi come fu più audace ed aggressiva ancora quando si vide rincalzata dalla frotta delle sue comari, le quali non è da dire se presero tostamente le parti della loro compagna.

      Il povero Bastiano ebbe una violenta tentazione di menare attorno il suo bastone sopra quel branco di oche che gli sbraitava intorno; ma il suo buon genio lo trattenne da un tanto scandalo. Si ritirò in buon ordine innanzi all'incalzante battaglione delle donnaccole, e si limitò uscendo a gettare come ultima minaccia queste parole a sua moglie:

      – Ricordatevi che se la vostra lingua è cagione d'un sol dispiacere ad alcuno dei miei padroni, io vi faccio ballare senza suono una monferrina indemoniata…

      La voce di Bastiano fu coperta dagli strilli delle vecchie comari che perseguitarono il fuggente, la Ghita in capo come duce e trionfatrice, sino sulla soglia del portone; ma ciò nulla meno la portinaia che conosceva l'umore e il polso del marito sentì penetrarsi quelle parole nell'anima ad accrescere in lei quella perplessità che le aveva lasciato il colloquio avuto coll'agente della Polizia.

      CAPITOLO VII

      Quando Maurilio, accompagnato da Don Venanzio, giunse in casa il pittore, dov'egli abitava, fu accolto da Vanardi e dalla Rosina con ogni dimostrazione d'affetto, a cui il giovane corrispose non senza alcun intenerimento dell'anima. Dopo questi primi saluti e rallegramenti, Maurilio domandò tosto alla moglie del pittore gli restituisse quegli oggetti per lui preziosissimi, ch'egli partendo avevale consegnato, e Rosina glie li diede.

      – Mio buon padre, disse Maurilio additandoli a Don Venanzio che ben conosceva che cosa fossero e che cosa valessero pel suo giovane amico quel rosario e quel bottone: oggi a proposito di questo mio piccolo tesoro, ho avuto una grande emozione.

      E raccontò al buon parroco ciò che era capitato quando quel ragazzo ch'egli aveva fatto venire affine di istruirlo, aveva per azzardo visto quel bottone e riconosciutolo compagno ad uno cui possedeva la sua nonna.

      Don Venanzio parve dare una certa importanza ancor egli a questo fatto.

      – Tu hai avuto una buona ispirazione ed hai cominciato a fare un'opera assai buona volendo educare ed istruire quel bambinello; ed ecco che la Provvidenza te ne vuole di subito ricompensare, forse, porgendoti un filo da penetrare nel mistero della tua nascita. Il filo è tenue, è verissimo, e sarebbe imprudente il concepirne da codesto troppe vive speranze; ma pure io son d'avviso che non si debba trascurare e sia da tentarsi di andarne a capo.

      Maurilio disse che già era sua intenzione recarsi presso quella donna e interrogarla in proposito, e che ciò farebbe di quel giorno medesimo. Sopravvenuto di poi Giovanni Selva, come quello che era conscio di tutto, venne chiamato a consiglio, e fra lui e don Venanzio decisero che meglio del giovane della cui sorte si trattava, un altro avrebbe potuto colla conveniente freddezza interrogare la donna, pesarne la risposta, esaminarne i contegni, e giunger forse ad un più sicuro risultamento, e fu determinato che Selva medesimo e il buon parroco si recherebbero di compagnia essi stessi in casa quella vecchia, della quale Maurilio, in quel momento, non ricordò più che il soprannome di Gattona.

      E ci sarebbero andati senz'altro indugio, poichè Don Venanzio con Maurilio aveva oramai scambiati quei discorsi con cui due che si amano, dopo un intervallo di tempo che non si sono visti, sogliono mettersi in giorno l'un dell'altro delle proprie cose, quando avvenne che inaspettato e come mandato anch'egli colà dalla mano del destino sopraggiungesse Gian-Luigi.

      Il vecchio sacerdote non avea punto cessato di amare quell'altro dei due cui potuto avrebbe chiamare suoi figliuoli d'adozione: dei due che in realtà a lui dovevano la vita dello spirito, il risveglio dell'intelligenza, all'uomo più preziosi che non la vita materiale e lo sviluppo delle forze fisiche.

      Molti anni erano che Don Venanzio non aveva visto più Gian-Luigi. Dal colloquio che ebbe luogo fra costui e Maurilio nella taverna di Pelone, abbiamo appreso che il figliuolo nutrito col latte della povera Margherita e da essa allevato coll'amore più che di madre, mai più non era tornato al villaggio, nè tampoco aveva colà

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