Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I. Amari Michele

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Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I - Amari Michele

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primi anni del quarto, scorreva in Sicilia il sangue dei martiri. Si illustravano allora i nomi, rimasti sì popolari, di Agata, Lucia, Ninfa, Euplio e molti altri; Lentini, culla un tempo della rettorica greca, si rendea celebre per la eroica costanza e numero dei cristiani. Nel medesimo tempo altri discendenti de' Sicelioti si fortificavano nel culto nazionale di Cerere o di Venere Ericina, con gli argomenti di Porfirio, capitato nell'isola per osservare l'Etna e fattovisi a scrivere (verso il 270) un trattato a difesa del paganesimo. Il filosofo Probo da Lilibeo, che visse in quella età, e i molti discepoli ch'ebbe Porfirio nel suo lungo soggiorno in Sicilia, combatterono insieme con lui questa guerra neoplatonica contro il cristianesimo: e i sofismi loro tornarono vani al par che i supplizii a fronte del principio morale dei novatori. Posate le persecuzioni; succeduto alla tolleranza il favore del governo, e al favore uno impetuoso zelo, la più parte dell'isola confessava la fede di Cristo. I sanguinarii editti di Teodosio poi accrebbero per forza il numero dei proseliti; fecero chiudere gli ultimi tempii pagani; e pur non bastarono a sradicare le antiche superstizioni della popolazione rurale. Infino agli ultimi anni del sesto secolo, che appena si crederebbe, se ne scoprono le vestigia in Sicilia, come in Sardegna; poichè le epistole di San Gregorio fan parola di idolatri che il vescovo di Tindaro durasse fatica a convertire, e di schiavi pagani, comperati dai Giudei di Catania per iniziarli a lor setta.121

      Insieme con la Chiesa Siciliana già adulta, emerse, ai tempi di Costantino, la gerarchia. Ebbe al certo origine popolare in Sicilia come per ogni luogo; ebbe stretto legame con la gerarchia di Roma per la consuetudine che passava tra i due paesi: legame di fraternità sotto la persecuzione, poi di riverenza, infine di soggezione, quando l'ordine ecclesiastico s'informò dall'ordine amministrativo dell'impero. Pertanto fin dai principii del quinto secolo veggiamo chiaramente il vescovo di Roma far da metropolitano nell'isola; consecrare i vescovi di quella; scrivere loro direttamente per gli affari di disciplina; chiamarli a sinodo a Roma; dar licenza per la dedicazione delle basiliche; delegare or uno or un altro all'esercizio di sua giurisdizione nelle cause ecclesiastiche; provvedere alla visitazione delle chiese: il quale ordinamento non fu mutato che nell'ottavo secolo, come innanzi diremo. La riverenza del vescovo di Roma in Sicilia s'accrebbe necessariamente a misura che quel s'inalzava alla supremazia ecclesiastica in Occidente, e che i conquisti dei Barbari lo rendevano protettore di tutto il clero occidentale. E la Chiesa Siciliana seguì senza contrasto tutte le dottrine e riti di Roma: fu provincia quieta ancorchè non ignorante; ausiliare fedele della metropoli, ancorchè non vi sia nato alcuno scrittore di primo ordine nè ortodosso nè eretico. Il clero non par sia stato irreprensibile; del resto non numeroso nè turbolento: pochi al certo i monaci, di regola forse basiliana; e vi si aggiunse una colonia di Benedittini a Messina, se pur v'ha questo di vero in una leggenda che ci occorrerà di esaminare nel quarto capitolo di questo libro.122

      Ma un altro vincolo fortissimo avvinse la Sicilia al papato in quei bassi tempi; e fu la proprietà territoriale, avanzo dei vasti patrimonii acquistati dai cittadini romani tra con le arti di Marcello e di Verre, o raggranellati ora per gli sforzi d'onesta industria, or con l'usura. Non prima fu lecito alle chiese di possedere beni, che lo zelo dei nuovi convertiti, l'artifizio del clero datosi ad avviluppare le coscienze in una rete inestricabile di peccata, il baratto dei perdoni, l'assiduità al letto di morte sopra animi stemprati dalla infermità agitati da tante paure, la confusione delle opere di pietà con le opere di carità, la eloquenza e dottrina fatte retaggio esclusivo del sacerdozio; tutti questi potenti motivi, moltiplicarono le donazioni e i lasciti pii: e più dopo la occupazione dei Barbari, quando i beni mondani de' vinti divennero sì precarii e sì rinvilirono. Così furono largheggiati alle chiese italiane vasti tratti di terreno in Sicilia, che nel linguaggio dei tempi si chiamavano fondi o masse. La Chiesa di Milano nel sesto secolo possedea nell'isola un patrimonio di questa fatta;123 un altro n'ebbe la Chiesa di Ravenna;124 ed uno di gran lunga più dovizioso la Chiesa di Roma, che d'altronde tenea tanti altri poderi in tutta Italia e fuori. Al dir di papa Adriano I, il patrimonio di Sicilia proveniva da donazioni non meno d'imperatori che di privati. Vaste erano le possessioni e sì sparse in tutta l'isola, principalmente presso Siracusa, Catania, Milazzo, Palermo, Girgenti, che talvolta i vescovi di Roma preposero all'amministrazione due rettori che sedeano a Siracusa e a Palermo, come al tempo antico i questori nelle due province, siracusana e lilibetana. Del rimanente un autore bizantino della fine dell'ottavo secolo fa montare il ritratto in Sicilia e in Calabria a tre talenti e mezzo d'oro,125 classica e incerta cifra statistica. I poderi, come ogni altro dell'isola, si coltivavano da conduttori e rustici, delle quali condizioni di persone tratteremo a suo luogo; notando sol qui che la Chiesa Romana riscuoteva una tassa nei matrimonii dei suoi rustici: strano transatto tra l'antica ragione che avea negato il nome di matrimonio ai congiugnimenti degli schiavi, e la nuova fede che costituivali in sacramento. Molte altre orribili avanie anco pativano i conduttori e rustici della Chiesa; avanie forse comuni a tutta la popolazione rurale della Sicilia, e per lo più aggravate dalla negligente amministrazione di mano morta, com'oggi ben si chiama.126 Così fatti abusi furono mitigati da San Gregorio al tempo di cui dicevamo in su la fine del capitolo precedente, ed al quale convien che torni la narrazione.

      La chiesa di Roma non si potea sottomettere di queto ai Longobardi, flagello della gente latina, e, oltre a ciò, incapaci ad occupare tutta la Penisola com'avean fatto i Goti. Donde, invece di piaggiare i nuovi Barbari, dovea la Chiesa far opera a scacciarli con le armi che fosse in poter suo di muovere, le bizantine cioè e le italiane; dovea rinforzare le bizantine con la riputazione sua in Italia e fuori. Sopratutto, non bastando l'impero a difendere Roma minacciata dai Longobardi e dalla fame, dovea la Chiesa salvar dassè sola la città eterna, le cui tradizioni politiche e religiose faceano aspirare il vescovo al primato in Italia e in tutta cristianità.

      Così fatto intento, consigliato al paro dalle passioni e dagli interessi, ma debolmente procacciato dai papi nei primi venti anni del conquisto longobardo, par che infiammasse l'animo di San Gregorio. Uomo di illustre sangue, grande avere, illibati costumi, indole gentile inchinata alla mestizia, dotta a mo' dei tempi ancorchè nemico della letteratura classica che gli puzzava di paganesimo, facile scrittore ancorchè inelegante, pronto parlatore, posato e robusto ingegno, perseverante, saldo nei proponimenti, pieghevole nei mezzi, operoso, insinuante, sottile ricercatore dei fatti altrui, buon massaio dei denari ma non per sè stesso, caritatevole e liberale con accorgimento anzi con astuzia, destro a usare le altrui debolezze e fino gli altrui vizii, ma a buon fine; e pieno il generoso petto di giustizia, di umanità, di religione e di zelo per la Chiesa di Roma: i quali sentimenti diversi gli pareano un solo; sì che in ultimo lo zelo ecclesiastico predominò e soffocò tutti gli altri quando gli si opponeano. Gregorio, primo del nome tra i papi, santo nel calendario romano e grande nella storia, fu specchio di virtù cristiana con quelle macchie di ruggine connaturali per la umana debolezza a tal virtù, le quali crescendo in certi tempi e in certi luoghi hanno occupato e guasto tutto il terso metallo; e n'è nata la bruttura che si chiama volgarmente gesuitismo. Gregorio, pria che il pontificato lo abilitasse a mandar ad effetto il disegno politico che accennai, disperando della vittoria, volle apparecchiare, com'e' parmi, un sicuro asilo alla Chiesa ortodossa di Roma e d'Italia. La virtù delle armate bizantine e il genio dei Longobardi, alieno sempre dalle cose del mare, gli designarono a ciò la Sicilia.

      Donde, lasciato appena l'uficio municipale di prefetto per cercare più certa via di potenza in un chiostro di Roma (a. 575), Gregorio fondava del proprio sette monasteri: uno in quella città e sei in Sicilia. Tal disuguaglianza di liberalità non può apporsi a capriccio. Sendo Gregorio nato a Roma, di famiglia romana e amorosissimo dei concittadini suoi che viveano in necessità e angustie spaventevoli, si è cercato di spiegare il fatto in varii modi. Altri ha imaginato ch'ei possedesse beni nell'isola, il che non pare, nè basterebbe. Altri che Silvia sua madre fosse siciliana,127 il quale supposto è gratuito al par che insufficiente a sciogliere l'enimma. A me pare che il bandolo si trovi negli scritti di San Gregorio stesso. Non prima esaltato al pontificato, lo veggiamo provvedere con estrema sollecitudine che si raccogliessero

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<p>121</p>

Quest'ultimo fatto si potrebbe spiegare altrimenti, supponendo una tratta di schiavi stranieri; ma quel di Tindaro lascia pochissimo dubbio, parlandosi espressamente di idolatri che non si voleano convertire ed erano difesi dai potenti. Ciò mostra che si tratti di contadini di Sicilia schiavi dei grandi proprietarii, e che il caso sia simile a quel di Sardegna. Oltre i seguaci del paganesimo greco e romano, qualche famiglia balestrata in quelle provincie dalla servitù prestava culto agli Angeli. Veggansi le epistole di S. Gregorio, lib. II, nº 98, indiz. XI (a. 593), e lib. V, nº 132, indiz. XIV (a. 596); le quali anco si leggono presso il Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, numeri CII e CXXVII, pag. 142 e 175. Per la missione in Sardegna riscontrinsi le epistole di San Gregorio, lib. III, nº 23, 25 ec.

In Sardegna, oltre gli idolatri indigeni, v'era una popolazione detta dei Barbaricini che si mantenea con le armi alla mano; coi quali si trattava di far uno accordo, purchè si convertissero al cristianesimo. V'ha su questo argomento altre epistole di San Gregorio, una delle quali indirizzata al capo de' Barbaricini. Par che si tratti di Berberi, come l'han pensato alcuni eruditi.

La tarda conversione degli abitanti delle campagne in Sicilia è notata espressamente nel panegirico di San Pancrazio scritto nel IX secolo, presso il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tom. I, pag. 11; e nella raccolta dei Bollandisti, Acta Sanctorum, 3 aprile, pag. 237, seg.

In generale si riscontrino Pirro Sicilia Sacra, Gaetani, Di Giovanni, Caruso, nelle opere citate, dal I al VI secolo, e il compendio del P. Aprile sì diligente a far fascio d'ogni erba (Della Cronologia universale della Sicilia, pag. 442, seg.). Le fonti della storia ecclesiastica di Sicilia nei primi tre secoli, per lo più sono i menologi greci e i Mss. del Monastero di Cripta Ferrata e di quello del Salvatore di Messina. Dei Mss. greci si sa quanto valgano. Gli altri puzzano spesso di XII e XIII secolo.

<p>122</p>

Veggansi i particolari in Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, Dissertazioni II, III, IV.

<p>123</p>

Divi Gregorii papæ, Epistolæ, lib. I, nº 80; presso il Di Giovanni, op. cit., si trova al nº LXXIX, p. 125.

<p>124</p>

Tre diplomi in papiro dati il 444, risguardanti il maneggio del patrimonio di un Lauricio in Sicilia e il danaro che il suo procuratore avea pagato ai conduttori della Chiesa di Ravenna anche in Sicilia, presso Marini, I Papiri Diplomatici, nº LXXIII. Divi Gregorii papæ, Epistolæ, presso Di Giovanni, op. cit., nº 211. Agnelli, Liber Pontificalis, presso Muratori R. I., tom. II, Parte I, p. 143, ove si dice di un Benedetto diacono, rettore del patrimonio della Chiesa Ravennate in Sicilia. L'autore visse nella prima metà del IX secolo. Il fatto portato da Agnello si riferisce alla metà del VII secolo, e prova la ricchezza di questo patrimonio e la corruzione dei rettori.

<p>125</p>

Theophanis Chronographia, p. 631. Supponendo che si tratti di talenti attici e ragionando il peso in oro puro, i tre talenti e mezzo varrebbero circa 300,000 lire italiane; ragionando i prezzi delle cose, circa un milione d'oggi.

<p>126</p>

Vedi le autorità citate dal Di Giovanni, Codex Siciliæ Diplomaticus, Dissertazioni V e VI.

<p>127</p>

Pirro, Sicilia Sacra, p. 25, nota del D'Amico.