Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I. Amari Michele
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Lo studio dell'eleganza nel dire, dalla poesia passò alla prosa; e lo promossero le tenzoni di nobiltà alle quali abbiamo accennato, e i sermoni degli Arabi cristiani; poichè il parlare in pubblico è la vera e unica scuola dell'eloquenza. Seguì ancora il perfezionamento della lingua e si sparse nell'universale un gusto per le bellezze della parola, non raffinato al certo come quello degli Ateniesi nel secolo di Demostene, ma forse non meno caldo e vivace. Così fatta disposizione estetica degli Arabi favorì assai l'apostolato di Maometto. Dagli esempii che ci avanzano, messo anche da parte il Corano, par che i pregii della eloquenza arabica in quel tempo fossero stati la purità della lingua, l'argutezza dei concetti, la vivacità delle imagini, il laconismo. E gli Arabi si vantarono sempre, tanto profonda era la loro ignoranza, di avanzare ogni altro popolo nell'arte della parola!
Tali principii ebbe il risorgimento della schiatta arabica nel secolo avanti Maometto. Al par che in tutte le età eroiche, la barbarie non avea per anco ceduto il campo. Stolide millanterie, brutali oltraggi provocano al sangue ad ogni piè sospinto; e il sangue chiama alla vendetta. Il gioco e il vino non fan rossore agli eroi. Appare stranissima intanto la contraddizione dei costumi nella condizione delle donne, le quali or disputano ai sommi la palma della poesia, reggono una casa col consiglio, e libere e adorate spirano sentimenti da romanzo; or son avvilite da patti di concubinaggio temporaneo, e talvolta venendo al mondo, si tengon peso della famiglia, pericolo dell'onore di quella, e i padri le seppelliscon vive. Allato a tanta abominazione, indovini e sibille; consultati dalle tribù nelle più gravi fortune; presi per arbitri dalle famiglie, anco quando ne va l'onore: l'universale crede al fascino, adopra sortilegii; chi spia il volo degli uccelli, chi legge l'avvenire intrecciando ramoscelli d'alberi, chi sorteggiando frecce senza punta. Donde a leggere i ricordi dell'Arabia in questo tempo si veggono confuse l'una con l'altra le fattezze dei periodi istorici analoghi che meglio conosciamo: dei tempi omerici, dei primi secoli di Roma e del medio evo. Alla cavalleria dell'Arabia non mancarono infine nè la moltiplicità dei protettori celesti, nè una città santa, nè il pellegrinaggio.
Le credenze religiose degli Arabi, ancorchè mal ferme, diverse d'origine, e niente connesse tra loro, davano appicco a un riformatore che imprendesse di ridurle ad unità. Primo avviamento a questo la idea d'un nume supremo; antichissima tradizione semitica, la quale appo gli Arabi mai non si dileguò, quantunque turbata dal politeismo. Credeano a una vasta popolazione d'esseri invisibili come i demonii degli antichi Greci, e chiamavanli Ginn che risponde alla nostra voce genii. Correa tra loro altresì una vaga speranza della immortalità dell'anima, non insegnata da metafisica nè da teologia, ma dalla superstizione, scuola senza dispute: e affermava che dal cerebro del trapassato escisse un gufo, il quale, sendo stata violenta la morte, non cessasse fino alla vendetta di mostrarsi ai parenti gridando: “ho sete, ho sete.” In altre pratiche superstiziose è agevole altresì di scoprire l'aspettativa della risurrezione.
Molti erano gli obietti del culto: idoli di pietra o di legno in sembianze umane, diversi nelle diverse genti; anco il sole, la luna, le costellazioni, simboleggiate da idoli o no; credute angioli, o com'essi diceano, le figliuole di Dio. Ma comechè amassero meglio praticare con cotesti iddii minori, visibili e palpabili, più pronti ad entrar nei particolari, ad ascoltare, a rispondere, ad aiutar l'uomo in ogni aspro caso della vita, pure la unità del culto e del Dio era serbata nella usanza antichissima che portava le tribù al pellegrinaggio della Caaba, la quadrata, come suona tal voce; la casa di Dio, come diceano gli Arabi anco avanti lo islamismo. Vaghe tradizioni ne riferivano la riedificazione ad Abramo e ad Ismaele; la prima fondazione a niuna mano mortale, poichè il rozzo tempio scese intero dal cielo. In prova se ne mostrava, e mostrasi tuttavia, un frammento: la pietra negra incastrata nell'angolo orientale del santuario; e nulla toglie che la tradizione riferisca il vero, e che la sacra pietra sia un pezzo di areolite o prodotto di eruzioni vulcaniche, sapendosi che ne siano avvenute in varii tempi alla Mecca. I mercatanti che fabbricavano questa città presso il tempio, coltivarono la proficua superstizione; istituirono sacerdoti, sagrifizii d'animali e riti di girare attorno la Caaba; e dettervi albergo a tutti gli idoli delle tribù, sì che divenne il panteon della nazione. E invano i cristiani abissinii, conquistatori del Iemen, faceano venire artefici di Costantinopoli, edificavano di marmi la splendida chiesa di Sana', mandavano la grida per invitar le tribù a quel nuovo pellegrinaggio; e fin moveano con un esercito per spiantare il rivale santuario della Mecca. Un miracolo lo salvò: fu esterminato lo esercito cristiano, forse dal vajolo e dalla rosolia che allor comparirono per la prima volta in Arabia. Il culto della Caaba divenne pertanto vero legame nazionale della schiatta arabica, e ne fe' come capitale la Mecca; i cui sacerdoti ordinarono un calendario con le stesse denominazioni di mesi che son rimaste in uso appo i Musulmani; regolarono la tregua annuale, primo passo all'unione della schiatta. E vicendevolmente si ripercossero in quel centro commerciale e religioso, le opinioni che germogliavano per tutta la penisola, recate da culti stranieri: il giudaismo, cioè, e il cristianesimo dei quali ho detto; e due di assai minor momento, cioè il magismo professato da qualche tribù del Golfo Persico, e il sabeismo, mistura d'una pretesa rivelazione e del culto de' corpi celesti, credenza antichissima che dura fin oggi, ma par non abbia giammai saputo accendere di zelo i settatori. Dond'egli avvenne che mentre l'universale degli uomini aspirava al perfezionamento morale e intellettuale appartenente ad età eroica, alcuni cittadini della Mecca lo cercarono a dirittura nella religione. Verso la fine del sesto secolo, un dì festivo in cui i Meccani tripudiavano intorno a loro idoli, quattro spiriti eletti si trassero in disparte; compiansero gli errori del volgo; diffidarono dei proprii ragionamenti, e si promessero di andare per estranei paesi in traccia della vera fede d'Abramo. Le non sospette tradizioni musulmane aggiungono che que' savii in lor viaggi profondamente studiassero la Bibbia, il Vangelo, il Talmud; conversassero coi dotti delle tradizioni giudaica e cristiana: e che al fine tre di loro si facessero cristiani; l'altro tornato in patria, perseguitato come novatore, spinto in esilio, perisse dopo parecchi anni, mentre ansioso correa di nuovo alla Mecca ad ascoltar la parola di Maometto.
Lo sviluppo di una nuova religione, apparecchiato da coteste condizioni di cose, fu favorito dalla forma del reggimento politico della Mecca. Questa città era stanza di parecchi rami della schiatta di Adnân; tra i quali a poco a poco prevalse la tribù dei Koreisciti, mercatanti, come si vuol che significhi il nome: e certo lo meritavano per essere, più che niuna altra gente, solerti e intraprendenti nei traffichi. Un Kossai, koreiscita, impadronitosi del sacerdozio della Caaba, chiamò alla Mecca altri rami di sua tribù; cacciò o assoggettò le vecchie genti, che di allora in poi veggiamo sempre confederate o clienti di case koreiscite; e sì ridusse la potestà politica in un consiglio degli anziani koreisciti detti Sâdât, ossiano i signori;140 aristocrazia, della quale ei si fe' capo, e come principe della città. Chiara mi sembra la distinzione del potere esecutivo e del legislativo nella rozza repubblica della Mecca; sottile forma di reggimento, che parrà stranissima in uno Stato ove non era potere giudiziario, nè magistrati civili o penali; ma le costumanze universali delle tribù spiegano cotesta anomalia. Alla morte di Kossai i discendenti di lui si contesero,
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Sâdât è plurale di plurale, come lo chiamano i grammatici arabi, della voce notissima Sâid, signore. Con questo titolo significativo chiamansi i senatori della Mecca di quel tempo nelle antiche tradizioni che raccolse Ibn-Zafer nel libro intitolato