Le due tigri. Emilio Salgari

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Le due tigri - Emilio Salgari

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Suyodhana. Ah! E gli elefanti?

      – I servi del mio padrone sono già partiti per acquistarli, e fra qualche giorno noi li possederemo.

      – È necessario che i Thugs non ci vedano. Potrebbero sospettare la nostra intenzione di recarci nelle jungle del sud.

      – Hanno già avuto l’ordine di condurli in un bengalow che appartiene al mio padrone e che si trova nei pressi di Khari, l’ultima borgata delle Sunderbunds.

      – Andiamo a pranzare, amici la giornata non è stata perduta.

      Capitolo V. LA FESTA DI DARMA-RAGIA

      Il sole stava per tramontare dietro le alte cupole delle pagode della città nera, quando la baleniera lasciò il praho, risalendo il fiume sotto la poderosa spinta di otto remi, maneggiati da altrettanti malesi, scelti fra i piú robusti dell’equipaggio.

      A poppa stavano seduti Kammamuri, Sandokan e Yanez, tutti tre camuffati da mussulmani kolkari, e Sambigliong, il mastro della Marianna o meglio l’aiutante di campo del formidabile pirata.

      Non avevano nessuna arma in vista, ma da un certo rigonfiamento della casacca, si poteva supporre che fossero invece formidabilmente muniti di bocche da fuoco e anche d’armi bianche.

      La baleniera, che marciava rapidissima, costeggiò lo Strand della città bianca, ossia inglese, la via piú bella e piú frequentata di Calcutta, che si prolunga fino alla spianata del forte William e che è fiancheggiata da palazzi e da giardini degni di Londra; poi filò dinanzi ai quais dove si seguivano senza posa eleganti palazzine chiamate bengalow, cinte da graziosi giardini, e dopo una buona ora giunse di fronte alla città nera, la black-town.

      Mentre la città inglese non ha nulla da invidiare alle piú belle capitali europee, questa non è altro che un ammasso immenso di catapecchie, con pochi monumenti degni della grandiosa architettura indiana che sfolgora invece a Delhi, ad Agra, a Benares ed altrove.

      Dalle splendide palazzine inglesi, dai palazzi immensi, dai negozi sfolgoranti di luce, dalle chiese anglicane ai teatri, agli squares della città bianca si passa senza transizione alle capanne miserabili, alle pagode semi-crollanti, ai bazar oscuri e fetenti, alle viuzze luride e fangose.

      Tutto è rovina, sporcizia, miseria, nell’antica città indiana. Casupole o capanne, parte di mattoni mal connessi, parte costruite con poche tavole inchiodate alla meglio, che non hanno quasi mai piú d’un piano, si seguono per parecchi chilometri, senza ordine, senza regola alcuna, divise solo da stradicciuole che sono pericolose a percorrersi di sera, nonostante la continua vigilanza dei policeman bianchi e indigeni.

      Erano le otto di sera, quando Kammamuri, Yanez, Sandokan e Sambigliong sbarcarono sul quai della città nera, ingombro in quel momento di barche di pescatori e di pinasse provenienti dall’alto corso del Gange.

      Quantunque fosse un po’ tardi, una certa animazione regnava sulle gettate.

      Dalle pinasse sbarcarono numerosi indiani, accorsi probabilmente dai villaggi vicini per assistere alla festa in onore di Darma-Ragia, la quale doveva già essere cominciata, udendosi in lontananza un frastuono assordante di tam-tam, di tamburi di sitar e di mirdeng.

      – Arriveremo in tempo per assistere alla danza del fuoco, – disse Kammamuri a Sandokan. – Vi saranno molti piedi scottati questa sera, perché è l’ultima e quindi la piú importante.

      Si unirono alla folla sbarcata dalle pinasse che si rovesciava attraverso le viuzze fangose della città, a malapena illuminate da mezze noci di cocco sospese alle finestre delle case, quasi ricolme di olio in cui nuotava uno stoppino.

      Lasciandosi portare da quell’onda di curiosi, dopo venti minuti si trovarono in una vasta piazza, illuminata da un gran numero di aste di ferro piene di cotone imbevuto di materie resinose, e chiusa da un lato da una vecchia pagoda d’antico stile indiano, che s’innalzava in forma di piramide tronca con colonnati, teste d’elefanti, divinità mostruose e animali anneriti dal tempo.

      La piazza era gremita di bramini, di babú, ossia di borghesi, di sudra, di battellieri e di contadini, però nel mezzo vi era uno spazio tenuto vuoto da alcuni drappelli di cipayes, dove ardevano immensi bracieri che proiettavano intorno un calore piú che torrido.

      – Che cosa si cucinerà su quei bracieri? – chiese Sandokan, che s’apriva faticosamente il passo fra quella folla di curiosi e di fanatici.

      – Dei piedi, signore, – rispose Kammamuri.

      – Quali piedi? Di chi? Di elefanti forse? Ho udito raccontare che sono squisiti.

      – Umani, capitano, – disse il maharatto. – Vedrete che spettacolo; ma giacché non è ancora cominciato spingiamoci verso la pagoda, se potremo giungervi: Quegli che cerchiamo possiamo trovarlo colà.

      Facendo forza di gomiti, poterono non senza fatica giungere alla base della gradinata che conduceva alla pagoda, ma colà si videro arrestati da una vera muraglia umana che non era possibile sfondare.

      Essendo però la terrazza che si estendeva dinanzi al tempio abbastanza elevata, potevano assistere egualmente alla cerimonia che si svolgeva dinanzi alla statua della dea, collocata davanti alla porta.

      Tutte le pagode indiane hanno due statue che rappresentano la stessa divinità a cui il tempio è stato dedicato: una collocata all’esterno a cui il popolo può presentare le sue offerte; l’altra interna a cui gli adoratori possono egualmente far pervenire i loro doni per mezzo dei sacerdoti, i quali si sono riserbato il diritto di poterla avvicinare da soli.

      Ad essi spetta il lavarla col latte di vacca, o coll’olio di cocco, l’ornarla di fiori e farle unzioni durante le grandi cerimonie.

      Il popolo dove accontentarsi di guardare l’idolo interno da lontano, felice di poter avere almeno un petalo dei fiori che l’ornano e che i sacerdoti distribuiscono terminata la festa.

      Intorno alle due statue di Darma-Ragia e di Drobidé sua moglie, erano state accese un gran numero di fiaccole, mentre bande di suonatori percuotevano con furore tamburi e tamburelli e laceravano gli orecchi coi suoni acutissimi dei gong e molte coppie di bajadere intrecciavano danze, facendo volteggiare in aria, con grazia, i loro veli trapunti in oro o in argento.

      Kammamuri e i suoi compagni si fermarono alcuni minuti gettando qua e là degli sguardi in mezzo alla folla, colla speranza di scoprire il vecchio manti poi, disperando di poterlo scovare fra quel mare di teste agitantisi burrascosamente, retrocessero verso il centro della piazza.

      – Cerchiamo un buon posto presso i fuochi, – aveva detto il maharatto a Sandokan.

      – Sono certo che troveremo il vecchio stregone nel corteo della dea Kalí.

      Se è veramente un thug, come abbiamo motivo di credere, vi prenderà parte.

      – Non è la festa di Darma-Ragia? – chiese Yanez.

      – È vero, ma essendo la pagoda dedicata a Kalí, porteranno in giro anche la mostruosa statua di quella sanguinaria divinità.

      Spingendo poderosamente a destra e a sinistra, i quattro uomini poterono finalmente raggiungere il centro della piazza, il quale era coperto per un tratto considerevole di tizzoni ardenti, che un nuvolo d’indiani ravvivava servendosi di ventagli di foglie di palma.

      – Sono per gli adoratori di Darma-Ragia queste brace? – chiese Yanez.

      – Sí

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