Le due tigri. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу Le due tigri - Emilio Salgari страница 8
Sandokan aveva fatto fuoco precipitosamente, nel momento in cui si sentiva colpire alle spalle da una palla di ferro o di piombo. Uno degli assalitori cadde, mandando un grido che subito si spense. I suoi compagni si gettarono a destra e a sinistra e scomparvero rapidamente fra le tenebre, prendendo diverse direzioni.
Sui bastioni del forte William si udí una sentinella a gridare:
– Chi va là?
Poi piú nulla.
Yanez e Sandokan, temendo un ritorno offensivo degli assalitori, non si erano mossi.
– Se ne sono andati, – disse finalmente il primo, non vedendo comparire piú nessuno. – Non sono molto coraggiosi questi Thugs, ammesso che fossero veramente gli strangolatori di Suyodhana. Sono scappati come lepri ai primi spari.
– L’agguato era stato ben preparato, – rispose Sandokan. – Se tardavo a scaricare le pistole ci strangolavano. È un filo d’acciaio che hanno teso per farci cadere.
– Andiamo a vedere se quel briccone è proprio morto.
– Non si muove piú.
– Può fingersi morto.
Si alzarono guardandosi intorno e tenendo in alto un braccio per tema di sentirsi imprigionare il collo da qualche altro laccio, e s’avanzarono verso l’uomo che giaceva disteso fra le erbe, colle mani strette sul capo e le gambe ripiegate.
– Ha ricevuto una palla nel cranio, – disse Sandokan, vedendo che aveva il viso imbrattato di sangue.
– Che sia un thug?
– Kammamuri ci ha detto che quei settari hanno un tatuaggio sul petto.
– Portiamolo nella scialuppa.
– Taci!
Un fischio erasi udito in lontananza, e un altro vi aveva risposto verso la via Durumtolah.
– Mio caro Yanez, – disse Sandokan. – Alla baleniera e senza perdere tempo. Avremo altre occasioni per osservare i tatuaggi dei Thugs.
Balzarono in piedi, saltarono il filo d’acciaio e si diressero rapidamente verso il fiume, mentre fra le tenebre echeggiava un terzo fischio.
La baleniera era ormeggiata al medesimo posto e mezzo equipaggio era sulla gettata armato di fucili.
– Padrone, – disse il timoniere scorgendo Sandokan, – siete stato voi a far fuoco?
– Sí, Rangary.
– L’avevo detto ai miei uomini che quegli spari erano di pistole di Mompracem. Stavo per accorrere in vostro aiuto.
– Non c’era bisogno, – rispose Sandokan. – È venuto nessuno a ronzare attorno alla scialuppa?
– No, signore.
– A bordo, tigrotti miei. È già molto tardi.
Fece accendere il fanale collocato a prora e la baleniera si allontanò.
Quasi nell’istesso momento un piccolo gonga che era nascosto dietro una pinassa, ancorata presso la gettata e montato da due uomini, nudi come vermi e unti di olio di cocco, si staccava silenziosamente dalla riva filando dietro la baleniera del praho.
Capitolo IV. IL «MANTI»
L’indomani Yanez e Sandokan, dopo d’aver dormito alcune ore, stavano sorbendo un’eccellente tazza di the; e mentre chiacchierando sugli avvenimenti della notte, videro entrare nel salotto il mastro dell’equipaggio, un superbo malese, tarchiato come un lottatore e dai muscoli enormi.
– Che cosa vuoi, Sambigliong? – chiese Sandokan che si era alzato. – È giunto qualche messo di Tremal-Naik?
– No, capitano. Vi è un indiano che chiede di salire a bordo.
– Chi è?
– Un manti, mi ha detto.
– Che cos’è questo manti?
– È una specie di stregone, – disse Yanez, che avendo soggiornato nella sua gioventú parecchi anni a Goa, ne sapeva qualche cosa.
– Ti ha detto che cosa vuole quell’uomo? – chiese Sandokan.
– Che viene a compiere un sacrificio a Kalí-Ghât onde i numi dell’India ti siano propizi, scadendo oggi la festa di quella divinità.
– Mandalo al diavolo.
– Vi osservo, capitano, che egli è stato ricevuto anche a bordo delle grab che ci stanno intorno e che è accompagnato da un policeman indigeno, il quale mi ha detto di non rifiutare la sua visita, se non vogliamo avere dei fastidi.
– Facciamolo salire, Sandokan, – disse Yanez. – Rispettiamo i costumi del paese.
– Che uomo è? – chiese il pirata.
– Un bel vecchio, capitano, dall’aspetto maestoso.
– Fa’ abbassare la scala.
Quando salirono poco dopo sulla tolda, il manti era già a bordo, mentre invece il policeman indigeno era rimasto nel piccolo gonga in compagnia di parecchi capretti che belavano lamentosamente.
Come Sambigliong aveva detto, quel medico e stregone ad un tempo, era un bel vecchio dalla pelle abbronzata, i lineamenti un po’ angolosi, gli occhi nerissimi che avevano uno strano splendore ed una lunga barba bianca.
Sulle braccia, sul petto e sul ventre aveva delle righe bianche e cosí pure sulla fronte, distintivi dei seguaci di Siva, i quali adoperano le ceneri di sterco di vacca o ceneri raccolte sui luoghi ove si bruciano i cadaveri.
Il suo vestito si limitava a un semplice dootée che gli copriva appena i fianchi.
– Che cosa vuoi? – gli chiese Sandokan, in inglese.
– Compiere il sacrificio della capra in onore di Kalí-Ghât, di cui oggi scade la festa, – rispose il manti nell’egual lingua.
– Noi non siamo indiani.
Il vecchio socchiuse gli occhi e fece un gesto di stupore.
– Chi siete dunque?
– Non occuparti di sapere chi noi siamo.
– Venite molto da lungi?
– Forse.
– Io compirò il sacrificio onde il tuo ritorno possa essere felice. Nessun equipaggio, anche straniero, si rifiuterebbe di lasciar compiere una tale cerimonia a un manti che può gettare dei malefizi. Chiedilo al policeman che m’accompagna.
– Allora spicciati, – disse Sandokan.
Il vecchio aveva portato con sé una capretta tutta nera ed una bisaccia di pelle dalla quale estrasse dapprima un pentolino che pareva contenesse del burro, quindi due