I rossi e i neri, vol. 2. Barrili Anton Giulio

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I rossi e i neri, vol. 2 - Barrili Anton Giulio

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dei suoi attempati colleghi in patriziato, ed esser quarto fra cotanto senno. E si noti che non la volevano smettere così presto; passeggiavano infervorandosi sempre più, e fermandosi ad ogni tratto per udir le sentenze del marchese Antoniotto, il quale amava ascoltar gli altri passeggiando, ma voleva parlare stando fermo e facendo star ferma l'udienza. Il Torre Vivaldi era senatore anche in villa.

      Di certo, Aloise avrebbe potuto dire la sua, anco in materia di fabbricerie; ma gli tornava più comodo dar ragione suo ospite. Nè lo faceva per piaggeria; sibbene perchè non era sempre coll'animo presente alla disputa, e l'accennar del capo, e le rotte frasi di approvazione, gli davano licenza di pensare a tutt'altro. Epperò, ad ogni tratto, quando i quattro peripatetici avevano a dar volta per rifare la strada, uno di essi, Aloise, perdendo di vista l'organo e i fabbricieri, dava un'occhiata là dalla parte del prato, sospingeva lo sguardo fin sotto agli alberi, dove, più felici di lui, il Cigàla, il piccolo Riario, e il De' Carli soprannominato Tartaglia, stavano conversando colla bella Ginevra.

      Vestita con quella cara semplicità che è lo sfoggio più conveniente della bellezza, Ginevra era seduta al suo solito posto, sotto l'albero prediletto, daccanto alla tavola di lavagna. Indossava una veste di quella seta tenue, leggiera, che i francesi chiamano __foulard__, bianchiccia di fondo e tutta disegnata a ciocche di minuti fiorellini. La vita era tagliata a mezzo scollo; ma, a dissimulare il sommo delle spalle ignude, e più ancora ad accrescere grazia a quella stupenda figura, le si girava intorno all'imbusto, secondo l'antica foggia di Maria Antonietta, un candido fisciù di velo trapunto, i cui capi (felicissimi capi, avrebbe detto il lezioso De' Carli) scendevano ad abbracciarle il giro di una vita, non troppo piena nè troppo snella, come vediamo essere stata condotta dal greco scalpello la vita di Venere. Teneva davanti a sè il suo telaio da ricamo, tra le stecche del quale era teso il canavaccio che ella con lana di svariati colori andava ricamando a punto in croce dei più graziosi rabeschi.

      Daccanto a lei, Maddalena stava lavorando all'uncinetto certe maglie, che non sapremmo e che non mette conto descrivere; arnesi da salotto che si fanno per ingannare il tempo ed anco un tantino per impedire ai signori uomini di insudiciare colla manteca delle loro capigliature la spalliera di una poltrona, o d'un canapè. La Giulia, per contro, non faceva nulla, e da un'ora si andava dolendo di non aver portato nessun lavoruccio con sè.

      – Cigàla, – disse ella finalmente, – aiutatemi a dipanare la lana di Ginevra.

      – Eccomi pronto; – rispose il giovinotto, mettendo con bel garbo le palme a sostegno di una piccola matassa che gli andava sporgendo la Giulia; – ma vi annunzio che vi servirò molto male.

      – Perchè? – disse ella di rimando. – Ogni cosa andrà pel suo verso, se starete attento.

      – E lo potrò io? – dimandò con aria di candore il Cigàla.

      Al candore risponde assai bene il rossore, e la marchesa Giulia arrossì tanto più facilmente, in quanto che la cosa tornava agevolissima a quel suo viso di Erigone.

      – Oggi siete più galante del solito! – ripigliò la dama, provandosi a guardare in volto il suo faceto vicino.

      – Lo credo io! – rispose il Cigàla, che non si lasciava mai cogliere disarmato. – Sono galante per due. In me parla il presente e l'assente.

      – Che cosa mi dite voi ora? Vedete, non trovo più il bandolo.

      – Io l'ho già perduto da un pezzo! – aggiunse sospirando il giovinotto.

      – Parlate anche per l'assente?

      – No, marchesa; qui parlo per me, solamente per me.

      – Cigàla, io vo in collera! – interruppe Ginevra.

      – E perchè, di grazia?

      – Perchè voi dite a tutte le dame la medesima cosa; ed è male, assai male!

      – Ma il peggio, signora, è più ancora del male, se ben ricordo gl'insegnamenti del mio maestro di grammatica. Ora il peggio si è che con tutte faccio fiasco egualmente.

      – E perchè? non lo indovinate voi, il perchè? – soggiunse Ginevra, proseguendo la celia. – Perchè mirate a troppe. Ora voi non ignorate che cos'abbia sentenziato una nostra gentile antecessora, la contessa di Sciampagna. «Egli non si può amare più d'una donna ad un tempo».

      – Verissimo, pel tempo d'allora; – rispose il Cigàla.

      – Perchè d'allora, e non d'adesso? – chiese Maddalena.

      – Perchè? È presto detto. Perchè una dama a quel tempo era costretta dalle leggi d'amore a non mandar disperato il cavaliere ch'ella avesse ricevuto in sua mercè, il cavaliere che portasse i suoi colori e facesse ogni maniera di prodezze per lei. Che fanno ora, con vostra licenza, le dame? C'incatenano colle loro lusinghe (lusinghe inconsapevoli, involontarie, s'intende) e poi, come fanciulli crudeli cogli animalucci che cascano sotto le loro mani innocenti, si pigliano spasso de' nostri dolori; ci piantano spille tra le unghie e la carne ci punzecchiano il cuore, come si adopera colle oche, per dilatar loro il fegato; ci mettono a rosolare sulla graticola e in fondo a tutto questo martirio non c'è nemmeno quella speranza del paradiso, che consolava gli antichi confessori della fede cristiana.

      – Benissimo! – tartagliò il De' Carli.

      – È pretta verità! – soggiunse il piccolo Riario, battendo del tacco sull'erba.

      – Mi fate venir la pelle d'oca! – disse a sua volta ridendo la marchesa Ginevra.

      – Ah, buon segno! – gridò con aria di trionfo il Cigàla. – Voi, almeno, sentireste pietà de' nostri tormenti. Ora, volete intorno a ciò il mio schietto parere? Io non voglio patire a questo modo; io sono un filosofo, non già un santo anacoreta che ami flagellarsi le carni, far penitenza de' suoi peccati e di quelli degli altri. Amo la donna in tutte le donne; piglio divotamente (e qui sta il mio pregio) tutto quello che esse non ricusano ad alcuno, voglio dire la vista delle loro bellezze, lo splendore delle loro grazie, i dolci sorrisi, le soavi parole, e ne compongo un elettuario, un brodo ristretto…

      – Eravate galante, e diventate volgare! – esclamò Giulia, strappandogli la matassa dalle mani.

      – Lasciatemi finire, signora! – ripigliò il Cigàla, trattenendo i pochi giri di lana che gli rimanevano sospesi tra il pollice e l'indice. – Ho detto e ripeto che ne compongo un elettuario, un brodo ristretto, che mi abbia a servire di viatico in questo deserto della vita. Il paragone è volgare, ma esprime il concetto; e il concetto non è volgare, finalmente! Amo in tutte le donne la donna; questo è l'essenziale. E ciò vale meglio che amarne una, una sola, e condannarsi a morire di rabbia. Che ne dici tu Aloise? —

      La dimanda era rivolta al Montalto, che in quel frattempo s'era liberato dalle fabbricerie e tornava con lenti passi verso il crocchio delle signore.

      – Io? – rispose il giovine, che aveva udito le ultime frasi del discorso di Cigàla. – Io dico che l'amore è la più trista delle umane passioni. —

      Questo era l'atto di contrizione di un apostata che tornava alla fede!

      Ma la vendetta della sdegnata divinità non si fece aspettare.

      – Per chi non ama davvero, sì certo, – rispose asciuttamente Ginevra, senza alzare gli occhi verso di lui, in quella che spingeva la punta del suo ago da ricamo nei trafori del canavaccio.

      Più acuto assai che non fosse

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