Oltre Il Limite Della Legalità. Alessandro Ziliotto

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Oltre Il Limite Della Legalità - Alessandro  Ziliotto

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almeno così dicono.”

      “Non è che non conosco altri lavori, o meglio, è così, però non ho voglia di cementarmi con altre cose e poi in questo periodo non riesco a sgomberare la mente come vorrei. Però a essere sincero un lavoro che mi è sempre piaciuto è quello del barista, stare al contatto con la gente, in mezzo alla musica, alle belle donne, insomma …”

      “Si ho capito, all’alcool.”

      “Beh, anche, perché no, comunque vedi, il barista, magari domani faccio una passeggiata e vado a chiedere nei locali che non frequentavo, giusto per non trovarmi a rispondere a domande imbarazzanti.”

      “Oh bene, vedrai che piano piano riuscirai a sistemare la tua vita. Questa sera che facciamo di bello? Che ne dite se andiamo da Abdlak nel dopocena?”

      “Per me va bene, non ho impegni, te Archimede vieni con noi oppure continui ad accecarti in bagno?”

      “Ah ah, spiritoso, ma chi ci sarà?”

      “Non so chi viene, ma dovremmo essere una decina di persone, dai sempre i soliti e poi cosa diavolo me lo chiedi ogni dannato giorno, solo per farmi dire le solite cose, comunque lì conosci tutti i miei amici, ci vieni o no?”

      “Rimango qui ad accecarmi, come ha detto Fra, ma cosa significa?”

      “Va beh, come preferisci. Ehy Enrico ti va di prendere un kebab al volo e poi andare da Abdlak?”

      “Se offri te, per me va bene.”

      “Dai scroccone andiamo.”

      “Giuro che un giorno te li ritorno tutti questi soldi, e con gli interessi.”

      “Si si, dicono tutti così, tanto lo so come va a finire, che ci ritroviamo tutti e tre davanti a una chiesa con il berretto in mano.”

      “Eh eh, mi sa che ci vedi lungo te. Senti una cosa Khan. Ma Abdlak, che lavoro fa? Dove abita? Perché ho l’impressione di averlo già visto ma non ricordo più dove.”

      “Abdlak? Lui ha una pizzeria da asporto in via Ferrarese. E non pensare male, non l’hai arrestato credimi. Ti dico io dove l’hai visto. Ti ricordi l’ultimo periodo che lavoravamo assieme?”

      “Beh, certo che mi ricordo…perché?”

      “Un giorno siamo andati a mangiare assieme, nella pausa pranzo, ti ricordi?”

      “Certo…dai non farmi stare sulle spine, spiegati meglio.”

      “Quel giorno mi eri venuto a prendere a casa perché vi serviva una traduzione urgente sull’indagine in corso, nel riportarmi indietro, considerato che nessuno dei due aveva cenato, ti avevo invitato a fermati nella pizzeria di Abdlak, e lì lo hai conosciuto.”

      “Ah si, ora ricordo. E se non sbaglio c’era anche tuo fratello. Giusto?”

      “Giusto.”

      “E non ci sono più ritornato perché la pizza faceva schifo.”

      “Ah, quello lo sai tu. A me piace.”

      “Diciamo che la pizza è un’altra cosa…però ora comprendo come mai quella brutta faccia mi fosse famigliare.”

      “Abdlak è una persona sulla quale ti puoi fidare. Ha passato momenti difficili, e come hai potuto constatare, lo hanno segnato, ma ora è una persona diversa.”

      “Se lo dici tu mi fido. Dai andiamo se no si fa tardi.”

      

      

      “Eccoci arrivati a casa di Abdlak. Prima di entrare, prendi la borsa che c’è nel bagagliaio…e dì che la offri tu. E non ti preoccupare, l’ho già inserita nel tuo debito.”

      “Grazie, non saprò ringraziarti abbastanza.”

      “Buona sera a tutti, Enrico ha voluto farvi una sorpresa e ha portato un po’ da bere. Abdlak spero che tu non abbia comperato troppe cose.”

      “Beh, l’alcool non va a male, quindi se ne rimane lo teniamo per la prossima volta che ci vediamo a casa mia.”

      Sin dalla prima volta che avevo visto Abdlak mi aveva dato un’impressione ambigua. Era un uomo sulla quarantina, e se non aveva quarant’anni di certo li portava maluccio. Solitamente mi era capitato di pensare che le persone paffutelle dimostrassero meno dell’età che avevano, ma nel caso suo era diverso. Il viso rovinato, per chissà quale assurdo motivo, e lo sguardo non troppo amichevole, lo rendeva una persona a primo impatto cattiva e con la quale era meglio non averci a che fare. Non importava se indossasse una camicia e un paio di jeans sgualciti, quando ci si ritrovava ad avere a che fare con Abdlak, datemi retta, era meglio girare i tacchi e andarsene. Teneva la barba sempre ben curata e i capelli rasati a pelo, apostrofandogli un’aurea scorbutica. Il suo modo di vestire poteva essere approssimativo, ma era comodo e di qualità, e di certo non lasciato al caso. Il sembrare leggermente trasandato faceva parte della sua persona e di certo gli serviva per nascondere qualcosa sotto ai vestiti.

      Avevamo parcheggiato la macchina ai piedi di una palazzina dall’aspetto elegante, incastonata in due palazzi dall’ugual sembianza. Il quartiere trasmetteva signorilità e sicurezza. Le sue lavorazioni barocche lasciavano a bocca aperta chiunque si soffermasse ad ammirarle, e in quel tramonto, dettato dallo stupendo gioco di luci, il sacrilegio più grande sarebbe stato non degnarle di uno sguardo. Già posati i primi passi sull’asfalto, una leggera brezza primaverile cullava le note medio orientali fuoriuscenti dall’immobile del padrone di casa. Sebbene i miei sensi erano impegnati ad assorbire gli stimoli provenienti dal mondo esterno, il mio cuore pulsava per inalare la sua anidride carbonica. Una volta aperto l’uscio di casa e aver ricevuto gli onori da tutti i presenti, il mio sguardo si dannava in cerca della sua musa. Avevo voglia di vederla, sfiorarla, volevo ritrovare l’ossigeno dopo ore di agonia, ma non ci riuscii, perché lei non c’era. Mi rassegnai, e mettendomi comodo, cominciai a parlare con chi avevo più confidenza, l’alcool. Versai un po’ di lemon sul bicchiere di vodka e tutto venne più naturale. Proprio mentre mi stavo per riempire il secondo bicchiere ecco che la mia mano fu avvolta da un’altra mano, soffice e calda.

      “Lascia, faccio io, se non ti dispiace.”

      Il mio sguardo andò inizialmente alla mano posata sulla mia e lentamente a salire sul suo volto. Sentii una vampata di calore salirmi dallo stomaco sin alla testa, una sensazione tanto strana, quanto meravigliosa. Una volta che i nostri sguardi s’incrociarono, fu come se il mondo intorno si fosse fermato. Eravamo stati scagliati in un paese sconosciuto e noi eravamo gli unici due interpreti delle nostre parole. Non la conoscevo affatto ma la sentivo mia come non avevo mai sentito nessun’altra. Ora che le nostre mani erano tutt’una, non la volevo lasciare, non volevo spezzare quell’incantesimo meraviglioso e unico. Fu lei a sciogliere il legame per offrirmi da bere e com’era arrivata se ne andò lasciandomi come uno stoccafisso.

      La seguii con lo sguardo, il suo ondeggiare tra il fumo dei narghilè, le donava un’aurea ancor più misteriosa. Dopo aver aspirato due/tre boccate, si fece trasportare del ritmo che risuonava nella casa. Quella melodia era qualcosa di magico e incantevole, il ritmo accoppiato al movimento di un corpo così perfetto e aggraziato mi lasciò a bocca aperta. Facevo scendere la bevanda minuziosamente preparata per aver l’autrice di quel servigio il più presto di nuovo accanto a me. Mi guardò assaporare la sua opera e una volta posato il bicchiere

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