Il Cielo Di Nadira. Mongiovì Giovanni

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Il Cielo Di Nadira - Mongiovì Giovanni

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umiliarci? Perché? Non ti basta quello che mi hai fatto?»

      La donna adesso aveva gli occhi lucidi.

      Corrado fu colpito da una strana vergogna nel vedere quelle lacrime e nell’udire quelle parole. Si voltò, fissando lo sguardo altrove, lontano dal viso di Jala.

      «Io non ti ho fatto nulla.» rispose, guardando ancora lontano, verso un gruppo di bambini intenti a giocare a rincorrere una gallina.

      «Io so che tu eri lì… e lo sai anche tu che io ti vidi. Incrociammo i nostri occhi; non mentirmi su questo! Da che ti vidi al Rabaḍ, un anno dopo quella prima volta, desiderai ardentemente che tu morissi. Se avessi raccontato cos’era successo sono sicura che i miei desideri sarebbero stati soddisfatti; ma che ne sarebbe stato poi di Nadira e della sua serenità? E poi avevi l’età di Umar e pensare del male su un bambino di dieci anni mi faceva vergognare davanti ad Allah più della vergogna di incontrare il tuo viso per strada. Ti ho odiato con tutta l’anima, Corrado! E non riesco a non odiarti ancora oggi… Tu rappresenti la mia vergogna!»

      «Sono gli occhi di Nadira ciò a cui vi riferite, e sono sicuro che il sospetto su quello strano colore sia venuto a tutti al Rabaḍ.»

      «Ma il tuo sangue rappresenta la natura di quella vergogna… dei sospetti non me ne è mai importato nulla.»

      Adesso Corrado trovò il coraggio di guardarla in faccia, accorgendosi che lei piangeva e tremava.

      «Jala, mia Signora, ascoltami! La tua vergogna è come se l’avessi portata io in questi lunghi anni. Forse l’essermi separato dalla mia gente, essermi perso tra queste montagne, è la pena che pago per questo male.»

      «Dimmi quello che voglio sapere, figliolo, e non parliamone più… Ma non pormi ricatti e richieste assurde, poiché mi resta solo di chiedertelo in ginocchio e sono sicura che Umar non lo gradirebbe. Farò quello che mi è possibile per aiutare la tua famiglia, ma non chiedermelo come riscatto alle parole che tieni prigioniere.»

      «In questo momento vedo davanti ai miei occhi la parte buona di Nadira, quella pura e incolpevole di ogni male. Bene, ti dico ogni cosa, ma ti chiedo di fidarti di me, perché quello che sto per dirti potrebbe sembrare assurdo.»

      «Per certo tu sai che fine ha fatto mia figlia!» esclamò lei, afferrando d’impulso il braccio di Corrado.

      «Il Qā’id vi ha mentito: nessuno chiederà il riscatto per Nadira.»

      «Perché l’avrebbero rapita dunque? Sanno che è la promessa di Ali ibn al-Ḥawwās e pensano bene di guadagnarci.»

      «Lui lo sa benissimo chi e perché l’ha rapita… e sa pure come liberarla.»

      «E perché ci mentirebbe?»

      «Perché non soddisferà mai la richiesta di quell’altro; non può perché significherebbe tradire il suo stesso sangue.»

      Jala cominciò a singhiozzare e scosse per le spalle Corrado.

      «Ti prego; cosa ti hanno detto?»

      «Chi l’ha rapita, colui che vi ostinate a chiamare Salim, non è altri che Mohammed ibn al-Thumna, Qā’id di Catania e Siracusa, e rilascerà Nadira solo se ibn al-Ḥawwās gli ridarà sua moglie. Io sono stato lasciato in vita per riportare la parola al Qā’id, tuttavia lui sa bene ogni cosa, e lo sa perché ibn al-Thumna scendeva da Qasr Yanna quella sera, lì dove suo cognato aveva disatteso le sue richieste riguardo al rendergli sua moglie.»

      Jala conosceva molto bene la questione, era stata Maimuna stessa a parlargliene. Essendo testimone della determinazione della donna a non tornare dal marito, perfino col rischio di non vedere più i suoi figli, Jala levò un alto grido di disperazione.

      Corrado aveva esaurito lo scopo di quella conversazione, per cui se ne tornava alla sua tenda. Calava intanto la tipica nebbia che sovente avvolge il monte di Qasr Yanna, nascondendo le lacrime del presente e gli indicibili ricordi del passato.

      Capitolo 14

      Fine estate 1040 (431 dall’egira), terre della Sicilia centrale

      Non si può tenere un gregge unito se il pastore bastona le sue pecore… ciò che si colpisce finisce per disperdersi. E così, mentre Guglielmo de Hauteville convocava i principali dei suoi uomini per discutere il da farsi, Giorgio Maniace si rendeva partecipe di sfuriate oltre l’accettabile contro i suoi sottoposti. Il suo genio militare era indiscusso, ma il suo lato umano lasciava a desiderare. E d’altro canto, l’uomo viene sempre fuori, anche quando il mito e la fama tendono a coprire la realtà con il loro alone di eroismo e leggenda. Maniace era acclamato dalla gente cristiana perché lo attendeva come un liberatore e dalla soldataglia perché lo temeva, ma la verità è che era un poco di buono. E così, dopo essersi inimicato Arduino il longobardo, Maniace aveva fatto il passo più lungo della gamba e aveva aggredito Stefano il Calafato, accusandolo anche di tradimento. Tuttavia contro l’ammiraglio incompetente, cognato dell’Imperatore e a quanto pare appoggiato anche dall’Imperatrice Zoe, colei che davvero comandava l’Impero d’Oriente, Maniace poteva ben poco.

      Arduino era stato saggio nelle sue scelte, affrancandosi pacificamente dai suoi obblighi nei confronti di Maniace, anche se con lo scopo di fargliela pagare successivamente; normanni e variaghi, come c'era da immaginare, l’avevano seguito.

      Stefano, invece, forte dei suoi appoggi importanti, aveva denunciato il fatto e accusato Maniace di voler prendere per sé l’intera Sicilia. Lo Strategos era stato arrestato e tradotto a Costantinopoli, ma non prima di aver trafugato le reliquie di Sant’Agata e di averle mandate come bottino alla città che serviva, nel tentativo di dimostrare che le accuse di Stefano erano false e che nessuna ricchezza conquistata poteva prendere il posto della sua fedeltà all’Imperatore. Uno scherzo che i catanesi non avrebbero mai perdonato a Costantinopoli.

      Da quel momento le operazioni terrestri erano passate proprio nelle mani di Stefano e da ciò si può comprendere perché la campagna contro i mori di Sicilia avesse iniziato a fallire irrimediabilmente. Per prima e ultima cosa Stefano aveva deciso di muovere battaglia contro i contingenti traditori delle truppe ausiliarie, poiché presuntuosamente credeva di riuscire in ciò che pure Maniace aveva evitato... e nello scontro vi aveva trovato la morte.

      Con l’esercito regolare delle provincie romee dell’Italia meridionale ancora in Sicilia, disorientato e sconfitto, longobardi e normanni avevano deciso allora di contrattaccare l’Impero in Calabria e in Puglia, prendendo in controtempo il nuovo nemico.

      Fu in quei giorni, prima di passare definitivamente il Faro, che gli uomini di Guglielmo, nel tentativo di arraffare quanto più fosse possibile per fare personale bottino, vollero predare in lungo e in largo i villaggi di Sicilia. Si divisero in bande da venti e da trenta, quindi ognuno si diresse dove credeva di poter conquistare tesori con relativa facilità, non facendo distinzione tra islamici e cristiani quando il boccone valeva la pena.

      Tancred propose di attaccare gli sguarniti villaggi dei saraceni ubicati poco ad est di Qasr Yanna. Con l’esercito di Abd-Allah decimato, forti dell’effetto sorpresa e con l’intento di colpire fulminei per poi fuggire verso est, tanto che erano sprovvisti della pesante armatura, Roul, Tancred, Geuffroi, il giovane Conrad e un’altra trentina di guerrieri, si diressero verso l’ombelico della Sicilia.

      Conrad non aveva mai smesso di sollecitare Roul all’insegnamento della guerra, ottenendo da questi il duro addestramento che

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