Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi

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Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - Francesco Domenico Guerrazzi

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qui. — Certa sera, ch'era caduta copia di neve, mi chiamavano a consulta per urgenza; andai, e trovai che mandavano a voti certo partito per fissare se di ora in avanti il candidato accademico dovesse proporsi da dodici o piuttosto da tredici Accademici. Aspettai udire cose di maggiore importanza e rimasi deluso, imperciocchè col voto del partito ogni negozio cessasse. Allora io mi attentai avvertire modestamente, ma francamente, che sarebbe stato bene indirizzare l'Accademia a più utile scopo, come a modo di esempio, allo studio della patria amatissima, sia per provvedere alla educazione del Popolo affatto abbandonata, sia per promuovere i commerci e le comodità capaci ad ampliare la floridezza del nostro emporio. — Risposero acerbi, si tennero per ingiuriati, e in brevi accenti dissero, avere fin lì durato in quel modo, ed aborrire da ogni novità. Deliberai congedarmi dall'Accademia; e lo faceva senza porre tempo fra mezzo, se Giuseppe Vivoli, adesso per meriti diuturni eletto Cavaliere, non mi avesse invitato caldamente a dettare lo Elogio di Cosimo Del Fante, valoroso soldato livornese, e a leggerlo nell'Adunanza solenne solita a tenersi nel 19 marzo di ogni anno. Studiosissimo di tutto quanto può ridondare a decoro della patria comune, il signor Vivoli mi conduceva a vedere i vecchi genitori di Cosimo, i quali a cagione della morte dell'unico figliuolo traevano desolati gli estremi giorni verso il sepolcro. Piangeva il padre mostrandomi i documenti delle rapide promozioni del figlio, le insegne e il ritratto; non piangeva la madre, perchè la sventura le aveva offeso il bene dello intelletto. Composi lo Elogio e lo lessi, plaudenti i cittadini benevoli, alla presenza dello stesso Governatore Venturi. I Regolamenti dell'Accademia ordinavano, il manoscritto della composizione letta nelle mani del Segretario si depositasse, ed io trasgredii a questa disciplina, conciossiachè, essendo determinato a licenziarmi, non mi paresse essere più tenuto ad osservarla: e qui fu il danno. Tre Accademici, il nome dei quali taccio, però che uno sia morto e due vivano acciaccati dalle infermità e dagli anni, presi, dirò, da tentazione del Demonio, mandarono scritto al Presidente del Buon Governo, com'io recitando lo Elogio di Cosimo del Fante ne avessi tolto pretesto a predicare massime sovversive al trono e all'altare (allora correva la usanza di coteste parole); a tanto ardire farmi audace lo affetto, che con bontà grande, ma prudenza poca, mi aveva mostrato il Governatore Venturi. Dal Presidente vennero istruzioni per informare segretamente della cosa; e subietto della indagine fu ancora il contegno del Governatore, il quale avendolo subodorato ne sentì inestimabile cordoglio. Egli primieramente, col mezzo del signor Direttore Pistolesi, mi richiese del manoscritto, che subito gli consegnai, e riscontratolo prima, lo inviava a Firenze, affinchè esaminassero la verità, e della calunnia si persuadessero. Tanto poteva bastare; ma sopportando acerbamente la ingiuria che gli pareva avere ricevuta, il Marchese Venturi scrisse lettere minatorie al Presidente, non ostante il mio consiglio a rimanersene, però che le minaccie destituite di effetto, anzichè tutelare dalle ingiurie, le provochino; e gli presagiva ancora, che la burrasca, passando di sopra ai suoi poderi, sarebbe scoppiata sul campicello mio. E fui profeta. Trascorsi parecchi mesi, allo improvviso, senza essere udito nè citato, senza che fatto alcuno mi contestassero, ecco giungere dalla Presidenza ordine al Governatore stesso, che m'intimasse la relegazione per sei mesi a Montepulciano. Mio era il danno, la umiliazione del Marchese. Giovane allora e del futuro improvvidissimo, manifestai volontà di ridurmi in Inghilterra; ma il Governatore, baciandomi con molte lacrime e profferendomi quanti desiderassi danari, mi scongiurò ad obbedire; lasciassi a lui la cura del resto; essersi prevalsi dell'assenza del Principe, allora recatosi a Dresda, per dargli quel colpo; dove abbisognasse, si sarebbe deciso corrergli dietro fino a cotesta città per chiarirlo del fatto; stessi di buono animo, chè tutto questo aveva a ridondare in mio maggiore benefizio. Comecchè dubitassi forte dello esito presagito alla trista ventura, pure andai a Montepulciano, repugnando rincrescere all'ottimo vecchio, che mi si era mostrato tanto benevolo. Egli poi non istette saldo nel suo proponimento, e a me toccò consumare i sei mesi nella relegazione di Montepulciano. Il Vicario di cotesta città, se non isbaglio chiamato Marini, mi veniva persuadendo a fare istanza onde la relegazione cessasse; si assumeva egli indirizzarla e raccomandarla, mi assicurava il fine felice: fui grato al buon volere, non accettai il consiglio, e dopo sei mesi tornai a Livorno.[61]

      Prima che passi ad altro, mi giovi ricordare come arrivato in patria mi s'ingiungesse di non partirmi senza licenza; così nel giro di sei mesi io era cacciato prima, poi confinato in Livorno! — Ora è da sapersi come i promotori del mio infortunio non rifinissero da sussurrare, che il manoscritto da me consegnato fosse tutt'altra cosa da quello letto; ma il tempo ha chiarita la menzogna, imperciocchè da prima fosse stampato a mia insaputa a Marsilia, poi liberissimamente in Toscana mentre durava la Censura preventiva; le quali due edizioni, dove si collazionino col manoscritto, che so trovarsi negli Archivii della cessata Presidenza, si conoscerà essere uguali per l'appuntino. Uno dei miei segreti denunziatori prima di morire commise al Cavaliere Vivoli d'impetrargli perdono da me, ed io lo concessi di cuore; pregato inoltre a dettargli lo epitaffio, lo feci senza adulazione, perchè invero egli era stato uomo di molta scienza e benemerito della mia città nella moría del 1804. Un altro non aspettò cotesto estremo punto per acquietare la sua coscienza, ma venne cristianamente per mercede, e cristianamente fu accolto; e ci baciammo in bocca, dannando all'oblio la ingiuria fatta e patita. Il terzo, un giorno pretese giustificarsi appo me, profferendo mostrarmi lettere donde resultava la pressura fattagli di unirsi agli altri due. Fosse vero o no il suo dire, cotesta era ignobile ricerca: la ricusai, invitandolo a dare al fuoco le carte, come io avevo dato alla dimenticanza il caso. — «Bruciate cotesti fogli, raccomandavagli istantemente, onde i nostri figliuoli non li trovino e si vergognino di noi.» — Durante il Governo Provvisorio, il Presidente del Buon Governo, che di questi e di altri travagli aveva contristato la mia giovanezza, fu il primo che a scadenza di mese mandò la ricevuta per riscuotere la paga. I miei orecchi sono stati saziati di encomii, e non gli ho avvertiti; ma questa fiducia posta nell'animo mio mi toccò nel profondo: grande era dunque la opinione della mia generosità! I miei compatriotti giudichino se io l'abbia meritata.

      Che cosa fosse questa o Grazia o Giustizia, lo dica l'Accusa, perchè io mi professo incapace a chiarirlo. —

      E passo alla terza piaga. Talvolta, non sempre, per sollevare l'animo e il corpo stanchi dalle continue fatiche, mi recava per qualche ora la notte in certa compagnevole brigata dove cenavamo, fumavamo e novellavamo a nostro agio. Convenivano quivi giovani appartenenti alle principali famiglie della città, ora uomini che il Governo annovera meritamente tra i fidatissimi suoi. Un bel giorno siamo chiamati davanti il Commissario di Polizia io e Domenico Orsini, persona dimostratasi sempre amica di quiete, onorata d'impieghi, tenuta anch'essa in conto di devota alla Monarchia Costituzionale; e ad ambedue noi il Commissario di Polizia fece motto di cospirazioni, di sètte e di simili altre fatuità. Rovello della Polizia a quei tempi era volere da per tutto cercare congiure: sentii dire, che gliele pagassero quando le aveva trovate, sicchè i bracchi tenevano sempre il muso a terra, e, non volendo tornarsi mesti ed anelanti a casa, quando non levavano congiure abbaiavano per far credere ch'elle fossero nel macchione. Fummo ritenuti due mesi in carcere: per questa volta vidi un Decreto, ma invano cercai il motivo della condanna; se ben ricordo, la breve scrittura conteneva una frase equivalente al causis nobis cognitis. — E se vuolsi aver saggio del caso che a quei tempi facevasi della libertà dell'uomo, si sappia come mio fratello Temistocle venisse a visitarci quasi quotidianamente. Certo giorno, su l'andarsene, il soprastante alle carceri gli diceva che bisognava si trattenesse là dentro; e il mio fratello rispondeva: rimarrei volentieri, ma i miei negozii mi chiamano altrove; — e l'altro: ho ricevuto poco anzi l'ordine di non lasciarla partire. — Oh! allora è differente la cosa. — Insomma anche il fratello un mese in prigione per colpa di visitare il fratello. Male incoglieva a quei tempi praticare le opere di misericordia corporale! —

      Ho udito raccontare come nei tempi antichi corresse usanza di allevare al fianco di regio alunno un fanciullo di piccolo stato, onde quante volte il primo cadesse in colpa, tante potessero bussare il secondo, onde quegli con la sola vista della pena si emendasse, e questi il dolore (ch'è retaggio plebeo) sofferisse. La Polizia, sospettosa del consorzio innocentissimo degli spettabili giovani, io penso che percuotesse sopra di me, come persona di minore importanza, per incutere negli altri salutare terrore. — Intanto un senso di molestia per tutta la Toscana diffondevasi; in ogni classe di cittadini era ansietà affannosa, sgomento crescente, e un domandare quando cotesti

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