Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi

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Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - Francesco Domenico Guerrazzi

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venti contrarii, per cui ne usciva un domandare discorde, spesso assurdo, sempre violento. Deviare cotesta tribolazione dal Governo per attirarla addosso a noi, non sarebbe stato rimedio plausibile; lo importante stava in sopprimere affatto il subuglio. Insinuando, come io suggeriva, al Popolo di radunarsi nelle chiese per discorrere delle loro faccende, si toglieva di piazza, e questo era primieramente un bene grande; poi l'assembramento diventava minore per la capacità del luogo, lo univoco impulso era remosso, lo equilibrio di varii centri stabilito. Inoltre, la santità della chiesa avrebbe raffrenato la violenza degli atti e le disoneste parole. Molte esigenze popolari sottoposte a discussione sarebbero comparse assurde. Uomini probi in adunanza di simile sorta, avrebbero adoperati a fine lodevole l'autorità del nome, il credito della condizione, la efficacia delle parole. Gl'impronti agitatori non si sarebbero mostrati, conciossiachè sia facile a comprendersi quanta differenza corra tra aizzare il Popolo passionato e inesperto durante la notte, e sostenere una opinione alla luce del giorno con bontà di discorso. — Quando si possa chiamare la gente in parte dove sia costretta a vergognarsi delle sue enormezze, ella, se eccettui pochi perdutissimi, tace. La Commissione ancora avrebbe avuto a trattare con uomini dabbene, padri di famiglia, conduttori di negozii, per indole e per interesse amanti di riposato vivere; nè intemperanze dalla parte loro erano da temersi; in ogni caso agevole adoperare con essi gli argomenti medesimi ch'eglino avrebbero impiegato con gli altri. Insomma, intendeva convertire il tumulto in sistema regolare di petizione. Le carte perquisite fecero fede di cotesto mio concetto; il quale forse sarà stato intempestivo, ma non disacconcio; ed anzi, neppure intempestivo, dove si avverta, che contro il Popolo non si voleva, nè si sarebbe potuto, senza pericolo, ricorrere alla forza.[67] Dei due partiti, reprimere o concedere, bisogna pure valerci di uno nelle perturbazioni politiche; peggio di tutto è la inerzia, che, come non ti sottrae ai danni di chi combatte, neanche ti acquista la benignità solita praticarsi verso chi cede a tempo. In ogni caso ell'erano proposte le quali potevano accettarsi o ricusarsi, non già leggi che per me si volessero imporre. All'Autorità locale parve avessero a sospendersi, e rimasero senza effetto. — A me non giova suscitare adesso tristi memorie, nè, adoperando io quello che in altrui massimamente detesto, staccherò serpi dal capo della Discordia, per gittarli a turbare la comunanza solenne della sventura. A me basti dire, che fui vilmente calunniato, che (stupendo a narrarsi!) Livorno intero mi suscitarono contro con l'accusa di macchinati incendii, di rapine e di stragi! Ben quattromila cittadini armati vennero ad arrestare e a incatenare la bestia feroce. Predicazioni acerbissime, stampe infami, governative insanie cospirarono ad alienarmi in un punto tutta la mia patria che ho amato sempre come la pupilla degli occhi, per cui mi piacque la fama, offerendo a lei, in tributo filiale, quel poco di onore che mi veniva procurando con i miei scritti! Allora, come adesso, perfide parole mi filtravano dall'alto del carcere sopra il corpo e sull'anima come stille di pece infiammata. Allora, come adesso, smarrito ogni senso di morale, di religione e di pudore, uomini (che se ne pentiranno amaramente un giorno) si fecero cagne studiose e conte per latrare e per mordere. E adesso, come allora, la mia maladizione saprà perdonarvi.

      Lo egregio uomo Scipione Bargagli, venuto Governatore a Livorno, presto si accôrse della oscena persecuzione: i miei concittadini, pieni d'inestimabile rammarico, per essersi lasciati così stupidamente ingarbugliare, domandavano ammenda della commessa ingiustizia. Alla Catilinaria era mancato il Catilina; nè Marco Tullio aveva potuto ripetere il verso famoso:

      O fortunata nata, me consule, Roma!

      I Giornali erano rientrati nell'otre di Ulisse. I Municipii, che simili ai montoni di Panurgo furono uditi uno dopo l'altro belare Indirizzi di congratulazioni, per la patria liberata dagli Unni, tacevano; solo si dibatteva il Partito a me avverso, e agitato da molte passioni, cresceva di violenza. Questo Partito, che aveva proceduto ardentissimo contro la Commissione, la quale si era proposta di secondare il Governo, col pretesto che creava uno Stato dentro lo Stato, adesso sorgeva tra il Governo e me; e al Governo diceva: «Guai se egli si attentasse a farmi tornare!» Da me ardiva pretendere un atto di contrizione delle colpe commesse, poi si contentava di un atto di fede, che gli servisse di modello per confrontarvi in ogni tempo la mia futura condotta; altrimenti minacciava mi avrebbe fatto durare fino a dieci anni in carcere. Artificiosa era cotesta improntitudine del pari che temeraria; però che il Partito intendesse strapparmi uno scritto qualunque, che poi, interpretato con la solita carità, gli servisse a dimostrare che non senza motivo si era mosso ai miei danni. Intanto il Governo, liberati i compagni della mia prigionia, riteneva me, che avevo dichiarato non volere uscire, dove alla mia fama non si desse convenevole riparazione; e il Principe nel 22 marzo 1848 dichiarava, che gli atti a me obiettati si riducevano ad una preordinazione per ispingere possibilmente verso una meta, cui le sopravvenute mutazioni politiche in Italia hanno a noi permesso di pervenire senza pericolo del nostro Popolo; aggiungendo che la loro illegalità era sparita dopo che lo Statuto ne aveva assicurato il conseguimento con letizia comune del Governo e dei governati. Onoratissime parole, almeno in cotesti tempi, ma non meritate affatto, imperciocchè, come ho avvertito, le mie erano proposte da accettarsi o da ricusarsi, non già leggi da imporsi; pure tacqui, avendo promesso non suscitare imbarazzi al Governo con importuni reclami.

      Forse per questo il Partito quietavasi? No. Persone non vili andavano dal Governatore Bargagli, e lo ammonivano che della quiete di Livorno non gli rispondevano, se io vi fossi comparso; e siccome il Bargagli, ormai infastidito, disse loro: «che gli ringraziava dei consigli, e che io sarei tornato ad ogni modo,» poco dopo egli si vide comparire davanti una persona vile, che minacciò mi avrebbero ucciso a furore di Popolo, se avessi posto piede a terra. Queste cose confidò poi lo egregio conte Bargagli a me e a Giovanni Bertani, ed io le riporto con la maggiore discretezza che posso, e per necessità di difesa; onde io spero ch'egli, gentilissimo com'è, non solo vorrà compatirmi, ma deplorare lo estremo in cui mi trovo di doverle rendere palesi. Alla fine il Governo spediva il piroscafo Giglio a riprendermi con onore, e venivano con esso taluni autori od esecutori del mio non degno arresto. Io gli accolsi come se mai mi avessero fatto oltraggio: arrivammo di notte; il Comandante del Porto attendevami per accompagnarmi a casa; io gli chiesi in grazia di accompagnare lui, e mi ridussi solo alla mia stanza. Gli autori del mio arresto, in parte si erano allontanati; in parte, dubitando della loro sicurezza, si tenevano nascosti; nei loro cervelli balzani già già le proscrizioni sillane attendevano. — Io fui Ministro, e non volli leggere cotesto Processo per non avere motivo di concepire rancore contro coloro che per avventura avessero deposto a mio pregiudizio. Io ebbi il potere, e lo adoperai a difendere, a beneficare, e perfino impiegare quelli che avevano cospirato a mio danno. Se motivo alcuno di ambizione mi fece desiderare il potere, fu questo: trovarmi in parte ove io avessi facoltà di mostrare quanto fossi diverso da quello che gli emuli per vizio di parte mi avevano calunniato.[68] — Prima di usare parole di obbrobrio contro di me, perchè non gittava l'Accusa uno sguardo sopra cotesto Processo? Essa avrebbe veduto che non fu grazia il Decreto del 22 marzo 1848 in quanto a me, ma benigno risguardo all'onore di un uomo atrocemente, quanto indegnamente, offeso. Essa avrebbe appreso, che non fu esatta quando le piacque designarmi come: individuo, che altre volte ha INTERESSATO la Grazia... e le Accuse quando posseggono tanta copia di carte, e di occhi, che le leggono, e di bocche, che referiscono, avrebbero l'obbligo di essere esatte.

      Se l'Accusa avesse udito gli scorticatori di San Bartolommeo muovere querela contro il povero Santo per averlo scorticato, che cos'avrebb'ella detto? In verità, a me sentendo rimproverarmi le sofferte piaghe, parve essere San Bartolommeo accusato di crimenlese per non avere più pelle.....

       Esame dei §§ VI, VII, VIII dell'Atto di Accusa, e Comento alle parole del Decreto del 7 gennaio 1851: «che con mezzi riprovevoli ero giunto a impossessarmi del potere.»

       Indice

      Investigando con intenzione nemica la passata mia vita, l'Accusa mi porge occasione ad esporta, fondandomi sopra Documenti e sopra la testimonianza dei miei concittadini. Reduce a Livorno, io trassi vita più solinga che prima non aveva fatto, non cruccioso, ma mesto della ingiuria patita; chè la nuova

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