Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi
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Se questa fosse Grazia o Giustizia, l'Accusa avrebbe potuto informarsene da qualcheduno di quelli che porsero grazie pubbliche al Principe di avere affrancata la Toscana dal turpe giogo della Potestà Economica.
Eccomi alla quarta piaga. La Polizia non aveva punto deposto lo antico sospetto, dacchè ella appartenesse a quella maniera di bestie, delle quali si dice che perdono il pelo, il vizio mai. Erano suoi fantasimi le sètte segrete. La svegliatezza degl'ingegni, la pratica degli umani negozii, la indole espansiva, non meno che certo costume antichissimo, ormai fra noi diventato natura, di aprire l'animo nostro a libera indagine intorno agli atti governativi, hanno impedito sempre che siffatte congiure allignassero in questa terra;[63] nè altrove abbiamo potuto intendere di che cosa sieno state capaci. Eranvi in Francia sètte segrete nel 1830, ma senza le ordinanze di Carlo X nulla avrebbero potuto operare; eranvi anche nel 1848, ma se Luigi Filippo consentiva ad alcuna modificazione su la Legge Elettorale, o più tempestivamente rassegnava il potere a favore del nipote, le sètte rimanevano impotenti. Le sètte, e la esperienza lo ha chiarito, non sono mai da tanto di rivoluzionare gli Stati. — Le rivoluzioni nascono dagli errori dei Governi, dallo scontento dei Popoli, e dal cumulo di molte cause che troppo lungo sarebbe discorrere. Fiorenza non si muove, se tutta non si duole, dicevano i nostri antichi, e con ciò vollero significare che il Popolo non è portato, ma porta, nè corre dietro alle voglie o alle passioni altrui, ma per le proprie unicamente si agita; e dissero bene. Le sètte, nello scompiglio universale, possedendo il vantaggio di un tal quale organamento, s'impadroniscono, su quel subito, delle faccende pubbliche; ma scemata la improvvisa caldezza, non corrispondendo quasi mai ai desiderii comuni, forza è che cadano come, senza andare tanto oltre, osservammo espressamente in Francia nel 1848. Se ai Governi importa, pei loro fini, mostrarsi atterriti di queste congiure, sì il facciano; ma che uomini politici se ne preoccupino, davvero non è cosa facile darsi ad intendere a chi conosce queste arti. Io di segrete congiure non ebbi mai paura, però temei moltissimo l'universale accoramento[64] del Popolo. Insomma, per me le sètte sono la jena che seguita da lontano le traccie, ma non precede mai il leone della rivoluzione. — Però la Polizia toscana non guardava tanto pel sottile; e perlustrando ogni cosa col microscopio alla mano, le venne fatto di scuoprire una sètta. Davvero, senza microscopio la non si sarebbe potuta vedere; andava composta di poche persone di stato piuttosto misero che mediocre, senza reputazione, senza seguito, prive d'ingegno, destituite di aderenze; la Polizia riputò che elle fossero comparse, e i veri attori stessero dietro le scene. Senza porre tempo fra mezzo, stese le immani braccia, e fatto fascio di gente, la gittò in carcere; tutta lieta di avere trovato il bandolo, già si augurava dipanare la matassa; e che così fosse, si manifesta dalla confusione delle persone arrestate. Infatti all'Elba fummo mandati il Conte Agostini, l'Avvocato Angiolini, Carlo Bini, io, e Carlo Guitera. Incominciate le procedure, alla prima scossa di vaglio e' fu mestieri scevrare gli Ebrei dai Sammaritani. Guitera rinvenuto colpevole con altri di sètta segreta, presto ricondotto in terraferma, subì giudizio, e fu condannato con altri parecchi. A noi rimasti, per la parte della Presidenza, dichiaravano: non essersi trovato fatto capace di appuntarci; però, reputarsi minacciato il Governo, ed ogni Governo minacciato avere diritto di provvedere alla propria sicurezza; noi poi conoscere uomini di mente a lui avversa, e tanto bastargli perchè in tempi difficili dovesse assicurarsi delle nostre persone: nonostante stessimo di buona voglia, chè appena cessati i torbidi, saremmo rimandati alle nostre case.
Credete voi novella quanto io vi dico? Dei molti, che ebbi a compagni in cotesto infortunio, mi basti rammentare uno solo, l'Avvocato Generale di Cassazione, Venturi; egli non è capace di mentire, ed egli vi chiarirà se io abbia detto il vero. —
Eccomi alla quinta piaga. — Quantunque scrittori consapevoli del pericolo in cui io verso del diuturno carcere, e della colpa appostami, abbiano profferite deliberatamente a mio danno parole peggiori delle siche romane; quantunque vaghi della opera e della infamia del vile Maramaldo, essi non abbiano aborrito da ammazzare un uomo morto; quantunque io mi trovi inseguito da oscena caccia, che a cane arrabbiato non si farebbe più atroce; quantunque tremendi diritti mi desse la difesa, e sentissi anima da gittarvi nella faccia il mio sangue innocente onde fosse di maledizione nuova ed aperta a voi, ai vostri figli e ai figli dei vostri figli, pure mi rimango, e desidero tôrre ogni amarezza al mio Scritto, onde alle tante miserie della patria non si aggiunga quella suprema di presentare lo spettacolo turpe di morti che non sanno posare in pace neanche dentro il sepolcro! — Io parlo al mio Paese come davanti un Tribunale di Giurati; io non recuso a giudicarmi nessuno, nè anche i miei nemici, purchè non codardi nè venduti, nè ciechi per la smania di avvantaggiare uno Stato italiano a cui nuocciono pur troppo; questi io gli ho provati senza coscienza, come senza pietà. I generosi, comunque nemici; si rendono giustizia, ed anche questi ho provato. Nella esposizione di questa quinta piaga mi studierò non offendere persona: comprendo sarebbe stato meglio tacere; e che così credessi, lo provi avere taciuto fin qui; ma adesso il silenzio non giova più, dacchè l'Accusa pubblicava la storia da me scritta dei casi dell'8 gennaio 1848, e da me per amore di patria lasciata inedita. L'Accusa non ha voluto rispettare nemmeno il sacrifizio del mio silenzio! Uscito dal carcere di Portoferraio (il quale duole a taluno dei benevoli scrittori ricordati qui sopra che non fosse più lungo), attesi allo esercizio della mia professione con assiduità maggiore di quello che avessi fatto fino a quel punto, inducendomi a prendere questo partito lo abbandono degli amici, l'amara povertà, e poco dopo il retaggio dei miei orfani nepoti. Dio eterno! Parevami questo esercizio di virtù; e nonostante a coro sento attribuirmelo a vizio di cupidigia, di avarizia, e ad altro peggiore. E bene m'incolse essermi armato di provvidenza, perchè una angosciosa infermità mi sorprese, tenendomi travagliato, ora più, ora meno, per bene tre anni. Schivo di compagnia, chiuso, ai miei studii tutto, pervenni al 1847. In cotesto anno principiarono le Riforme, e i moti delle Riforme; vedeva i successi, e tacito considerava; non era cercato, e mi stava da parte. Allo improvviso gli emuli miei (e poi furono nemici), che fin lì avevano posto una tal quale ostentazione ad obliarmi, ecco cercarmi premurosi, e volere anzi costringermi che seco loro mi accompagnassi. Biasimo o laude che ne ridondi, questo s'intenda bene, e si riponga in mente, che altri, non io, anzi me inconsapevole e repugnante, prese ad agitare il Popolo livornese; e le prove abbondano più che non si crede, e le direi se una cosa sola non si opponesse, ed è l'alto, invincibile aborrimento che sente in sè ogni anima, che non sia fango affatto, di adoperare anche a necessaria difesa le arti usate dagli emuli miei per offesa spontanea. — Che cosa gli muovesse, e perchè? Poco importa indagarlo; il fatto sta che vennero in casa mia, mi obbligarono a vestirmi, mi presero per le braccia e pel petto, e a forza mi trassero ad arringare il Popolo nella Piazza di Arme, a forza mi trassero a Pisa. Passate le prime effervescenze, pensai, e scrissi quello di cui tenni proposito nella pagina 21 di questa Apologia. Intanto fu chiesta la Guardia Civica a Firenze, e Guardia Civica si volle immediatamente a Livorno. Mi sia permesso dirlo: il modo col quale essa venne composta in Livorno seminò la discordia nel Popolo, e fu origine di tutti i mali. Alcuni individui, certamente rispettabili, ma allora per inesperienza più che non conviene in simili congiunture imperiosi, stesero una nota di loro amici, o aderenti, disegnarono i gradi, distribuirono gli ufficii; poi recatisi al Governatore Don Neri Corsini, la fecero firmare; il Gonfaloniere Conte de Larderel costrinsero (secondo ch'egli stesso mi referì) a sottoscriverla senza pur leggerla. Di qui nacque che la Guardia Civica in Livorno sorse opera non dirò di un Partito, ma piuttosto di una consorteria, ed anzichè istrumento di concordia fosse motivo d'ingiuria da un lato, di offesa dall'altro, di litigio per tutti. Chiunque più tardi (non ora che la rabbia di parte non lo consente) si farà a dettare storie meritevoli della dignità del nome, troverà come il modo della istituzione della Guardia Civica in Livorno partorisse guai, che altri va stortamente attribuendo a cause diverse. — Ora avvenne che il Popolo escluso dalla Guardia concepisse maraviglioso rammarico, e togliendo pretesto dalla guerra imminente si facesse a domandare armi. Qui è da sapersi come parecchi cittadini, e della Guardia Civica la massima parte, opinassero dovesse il Popolo contentarsi delle ottenute Riforme, e della guerra avesse a deporre il pensiero; opinione, che, a quanto sembra, seguitò poi il conte Pellegrino