Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi. Francesco Domenico Guerrazzi

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Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - Francesco Domenico Guerrazzi

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      Piaga per allentar d'arco non sana.

      Gli emuli miei, vedendo tanta mansuetudine, la reputarono viltà, e tornarono più baldanzosi che mai a procedermi avversi nelle prossime elezioni, continuando nelle calunnie, che vorrei dire infami, se non fossero state ridicole.[69] Per la quale cosa schivando diventare argomento di litigio, e maledicendo in cuor mio lo infame seme della discordia, che mai non quieta nei petti umani, deliberai di un tratto abbandonare la città e ricovrarmi in qualche appartato asilo.[70] E rallegrato dall'amicizia, splendido delle bellezze della Natura e dell'Arte, io mi ebbi queto asilo nella villa di Scornio. Colà io riposava all'ombra delle antichissime piante, e leniva con gli affetti domestici, le cortesie dell'amico e i cari studii, l'animo offeso, quando lo egregio Niccolò Puccini mi avvisava come la banda cittadina avesse deliberato venire a farmi festa, e come la banda del Borgo non sembrasse disposta a patirla, correndo fra loro emulazione grande, e quasi nemica. Conobbi invidiarmi la fortuna anche cotesto ricovero, onde senza por tempo fra mezzo io mi partii, pauroso sempre che il mio nome diventasse soggetto di contesa, e mi condussi a Firenze. — Intanto accaddero le elezioni in Livorno, e quantunque sommando i voti dei quattro Collegi io ottenessi numero di gran lunga superiore a quello degli altri candidati, pure singolarmente in ogni Collegio lo ebbi minore, e non rimasi eletto. — La operosità non contrariata degli emuli conseguiva un fine per loro desideratissimo, e poichè vedevo che tanto gli soddisfaceva, anche io ne godevo. Adesso la Curia Fiorentina mi scriveva su l'Albo dei suoi Avvocati; e questa larghezza non mi ha ritolto finora, almeno credo. Più tardi l'Accademia della Crusca mi creò Accademico; ma altri pensando forse che in me si avesse a rinnuovare lo esempio di Nabuccodonosor, voglio dire che cadendo di seggio diventassi bestia, mi ha radiato dal ruolo degli Accademici. Deus dedit, Deus abstulit, fiat voluntas Dei! Intanto tre Collegi, San Frediano in Firenze, Dicomano e Rosignano, mi elessero Deputato: estratto a sorte rimasi di Rosignano; nè dal maggio in poi misi più piede in Livorno. Fra la mia patria e me, rimaneva non dirò rancore, ma un cotal poco di ruggine a cagione dei fatti del gennaio; e partendo, io la lasciava in balía degli emuli, i quali la dominavano intera con la Guardia Civica, di cui erano principali e caporioni. Correva il 22 agosto 1848, quando i destini condussero a bordo del Piroscafo l'Achille il Padre Gavazzi a Livorno. Altre volte soggiornò in Toscana. Uomo di spiriti accesissimi era egli, per professione del sacerdozio, per impeto di eloquio e per vasta corporatura potente sopra le turbe, molesto ospite al Ministero nostro. Il Ministero, che si perdeva dietro ai bruscoli e non avvertiva le travi, dapprima volle impedire lo sbarco al Barnabita tribuno; quando il Popolo lo volle in terra, gli concesse e sbarco e transito traverso Toscana per Firenze. La mattina del 23 agosto giungeva col mezzo del telegrafo cotesto Dispaccio a Livorno, e in quella mattina stessa a mezzogiorno il Padre partiva alla volta indicata. Dodici Livornesi lo accompagnavano per fargli onore. Arrivati a Signa, trovarono apparato di Guardia Civica e di Carabinieri commessi a non permettergli il passo per Firenze: andasse a Pistoia, quinci a Bologna. Con la milizia venivano ancora contadini armati. Non sembra che succedessero accoglienze oneste nè liete, conciossiachè vi fossero ingiurie e percosse ricambiate; si disse ancora di una bandiera tricolore arsa; degli accompagnatori, dieci andarono a Firenze, due proseguirono il viaggio per a Bologna col Frate. Il Popolo per queste notizie montò su le furie, ruppe il telegrafo, corse ad armarsi; il Governatore L. Guinigi relegò in Fortezza Nuova, i Dispacci governativi sorprese. Artatamente o a caso, si sparse rumore una mano di soldati muovere contro Livorno; a crescere il tumulto, le sentinelle avanzate scaricano gli schioppi; allora presero a suonare le campane a stormo, il Popolo corse ad armarsi, la Civica occupò le porte; gli Artiglieri disposero in battaglia tre pezzi di artiglieria; ma il Governatore mandava ordine nessun corpo armato s'inoltrasse contro la città, la bandiera supposta arsa tornava sventolante a Livorno, deputati spediti al Principe ne riportavano parole benigne: «Rincrescergli si dubitasse della sua fede e del suo affetto verso Livorno, del quale aveva dato sempre prove non dubbie; non avere mai avuto pensiero di mandare forze contro la città.» Pegni certi di restaurata pace erano quelli: se non che quando ormai pareva sicura, come il destino volle, ecco prorompere più tremendo motivo di guerra. Cadde in alcuni il pensiero malaugurato di dispensare fucili alla Guardia Civica attiva in Porta Murata; il Popolo minuto, che avea sempre sopportato a malincuore trovarsi escluso dalla Guardia, accorre e pretende le armi pur egli. — Una sezione di Civici muove a comporre il subuglio, e vi riusciva, quando il comandante della sezione ordinava facessero fuoco; lo fecero, e tre rimasero morti, quattro feriti, di cui uno dopo poche ore spirava. Il Popolo adesso inferocisce a mille doppii più terribile di prima; i Civici tutti correvano pericolo presentissimo di vita, se molti di loro non si nascondevano, e se l'esortazioni di sacerdoti e di spettabili cittadini non avessero placato gl'incrudeliti animi, persuadendoli a deporre ogni proponimento di privata vendetta, e aspettare il fine del processo, che ormai s'iniziava contro i colpevoli di cotesta immanità. Fu in quella occasione, che me, assente e inconsapevole, posero a formare parte di una Commissione intenta a mansuefare il Popolo e a condurlo a miti consigli,[71] e furono anche spediti uomini a posta in Firenze per far prova di menarmi a Livorno; alla quale istanza io mi ricusai, sì perchè temei la calunnia di provocare coteste turbolenze a danno del Governo, sì perchè seppi formare parte della Commissione uomini i quali io reputava largamente bastevoli di provvedere al bene della patria comune.[72] Mentre però ricusava andare, confidando nell'antica amicizia del Presidente Capponi, seco lui mi restringeva, scongiurandolo a palesarmi quali deliberazioni intendesse prendere riguardo alla mia patria; ed egli dicevami, avrebbe mandato Leone Cipriani Commissario straordinario; alla quale notizia io mi turbai e risposi: Leone Cipriani essermi amicissimo, conoscerlo uomo risoluto, capace d'immaginare od eseguire forti proponimenti, ma appunto per queste sue ottime qualità disacconcio alle parti di conciliatore. Leone Cipriani non dissimula nè sopporta uno insulto, e siccome prevedo probabilissimo che qualche oltraggio gli facciano, così riesce agevole del pari il presagio, che simile negozio non possa sortire lieto fine. — Queste cose ho voluto dire, perchè so che a Leone Cipriani furono riportate diversamente; dal 1848 in poi noi non ci siamo più visti: egli andando in California, io rimanendo prigione, forse in questo mondo noi non ci rivedremo: ma desidero che di me conservi quel buon concetto, che io (tranne la sua infelice commissione livornese) serberò, vada certo, finchè io viva, di lui. — Altre pratiche feci presso il Presidente Capponi e i suoi Colleghi per impedire la sciagura imminente; sopraggiunse S. A., ed io mi allontanai con la promessa, che se taluna delle mie proposte avessero accettato, me ne avrebbero porto avviso prima del mezzogiorno a casa. — Venne mezzogiorno; aspettai fino al tocco; allora uscii disperato di ogni buono esito delle mie premure. Incontrando il signor avvocato Menichelli, mi domandava perchè non assistessi alla Tornata straordinaria del Consiglio Generale tenuta in cotesta mattina per discutere intorno ai poteri eccezionali da conferirsi al Ministero per ridurre a partito la città di Livorno: accorsi sollecito alle Camere, ma trovai discussi e votati due Articoli della Legge del 27 agosto 1848; allora discutevasi il terzo, e se non erro, orava il Trinci.[73] Mi ritirai col cuore chiuso da funesti presentimenti. Mi sia permesso trapassare correndo sopra i casi del 2 settembre. Sangue fraterno versavasi e da mani fraterne! Dopo la scellerata battaglia, ecco come rimaneva una città floridissima, emporio unico del commercio toscano: Autorità fuggite, uffizii vuoti, Municipio disperso, cittadini trepidanti, milizie incerte del proprio destino, Fortezze rese, avventurieri audacissimi a capo del Popolo; plebe insanguinata, e orribilmente sospinta agli estremi delitti. Orribili detti si udivano, ma peggiori fatti si temevano; da per tutto affanno e paura; gl'incendii, le rapine e le stragi immaginate nel gennaio, adesso paventavano davvero. In tanto stremo, la Camera di Commercio mandava J. Moore, O. Lloyd, P. Pate e G. Nesi, a scongiurare il Ministero inviasse a Livorno Don Neri Corsini e me, per impedire la rovina della città.[74] Il Ministero rispose acerbamente, non accogliendo la istanza. Allora si volsero a Don Neri Corsini. Io non ricordo bene se questo signore non reperissero, ossiovvero si recusasse; però se lo rinvennero, ed ei rifiutò, io non lo biasimo: disperata impresa era quella di andare a gettarsi nella fossa dei leoni, e per di più, col Governo non bene disposto.[75] Finalmente, smaniosi si fecero alla mia dimora, e grandi e reiterati furono gli scongiuri perchè non consentissi che la mia patria, il luogo della mia nascita, sobbissasse; la Provvidenza apprestarmi prodigiosa occasione di potere salvarla da quei danni medesimi, che indegnissimamente l'odio di parte mi aveva imputato; afferrassi la occasione, la benevolenza degli amici mi confermassi, quella degli avversarii conquistassi, benemeritassi della Patria e della Umanità.

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