che andavo loro esponendo: — temere grandemente ch'essi esagerassero il mio credito sul Popolo di Livorno; ignota la plebe a me, io alla plebe, e, se ricordavano, averla io provata più di una volta contraria: non sapere come venire a capo di superare gli avventurieri armati, che soffiavano in cotesto incendio: pericoloso sempre darsi in balía del Popolo commosso, insania adesso, ch'era montato in delirio. Dall'altra parte, non isperimentare il Governo benevolo, e la opera mia non pure egli non seconderebbe, ma l'avrebbe forse aborrita. — In questa condizione di cose prevedere la perdita della fama certa; forse della vita, e benefizio nessuno per la patria. — Ma per queste ragioni non si ristavano, e tanto meno consentivano lasciarmi andare, in quanto me tenevano suprema tavola nel naufragio, onde fervorosamente incalzavano: «non essere sagrifizio quello che calcola così sottile; vederlo pur troppo, covarmi riposto nell'anima il rancore contro la patria per la memoria dell'antica offesa; bene altro concetto avere essi formato di me; adesso a prova trovarmi non generoso, non magnanimo siccome mi avevano tenuto.» Non vi ha cosa al mondo che tanto mi ponga paura, quanto il sospetto che altri mi abbia a trovare inferiore alla estimazione che mi onora; non so se a caso o ad arte coteste parole adoperassero, ma certo elleno erano tali a cui non poteva e non potrò mai resistere io; però, tronco a mezzo ogni ragionamento, uscii in questo discorso, il quale sarà sempre, io non ne dubito, presente a quei Signori: — A Dio non piaccia, che io non abbia a meritarmi la vostra stima: verrò, come volete; e se mi accadrà sventura, farete testimonianza che non fui cieco nè imprudente, ma che prevedendola io mi vi sottoposi, perchè voi reputaste che per me si potesse avvantaggiare la patria. — E partimmo; fra Pisa e Livorno rovesciò la carrozza e andammo sottosopra dentro una fossa: quale più quale meno, rimanemmo ammaccati tutti. Mentre versavamo in cotesto pencolo io dissi: — questa è la prima, non la più grave delle disgrazie che mi attendono. — Venuti alla meglio in prossimità di Livorno, trovammo sentinelle avanzate che ne circondarono, e per un laberinto di barricate dopo lunga ora ci fecero pervenire nel centro della città. Sporsi il capo dallo sportello della carrozza, e vidi con apprensione non piccola, come moltissimi degli armati camminassero senza scarpe e in capelli; eravamo arrivati in fondo davvero! La mattina per tempo, consigliai uno dei due Priori rimasti a mandare inviti al Clero, ai Collegi Legale e Medico, alla Camera di Commercio, alla Guardia Civica, alla Milizia di linea, ai Possidenti e a parecchi del Popolo minuto, perchè intervenissero ad una adunanza nella sala terrena del Municipio; intanto io facevo opera perchè i buoni cittadini gli smarriti spiriti ricuperassero; mostrassero buon viso alla fortuna; si aiutassero insomma se volevano che Dio gli aiutasse;[76] pubblicai proclami, adoperando parole di lode verso il Principe per deliberato consiglio.[77] Io mi era accorto presto che la grandissima maggiorità del Paese, affezionata al Principe Costituzionale, da una parte deplorava la inettezza del Ministero che l'aveva condotta a questo estremo; dall'altra stava paurosa della plebe armata, indigente, infellonita, e dei capi che si era messi alla testa. Invero non era affare di lieve momento cotesto. Torres, che si chiamava Generale, uomo rotto ad imprese arditissime, il quale mescendosi fra il Popolo, fino dal 3 settembre si era fatto dichiarare Comandante della forza armata di Livorno, aveva costretto la Commissione di sicurezza a dimettersi; capitolò per la resa del Forte di Porta Murata;[78] seguíto da una turba di gente sinistra svillaneggiava, minacciava, incuteva terrore. A questa gente non tornava conto la pace; usa a pescare nel torbido, voleva permanente la tempesta e la provocava. — Due cose erano da farsi, e presto: dare animo alle menti sbigottite di manifestare voto solenne di volere stare congiunte alla famiglia toscana e rifuggire da ogni mutamento politico; togliere al Torres la male usurpata autorità: così veniva a spuntarsi la speranza alla turba del Torres di sopraffare la maggioranza dei cittadini con violenti partiti. Aperta la seduta, io incominciai, e lo ricordano tutti, proclamando essere intenzione universale, starci uniti alla Toscana e al Principe Costituzionale, imperciocchè volere diversamente sarebbe stato non pure empio, ma assurdo. Unanime consenso approvò la proposta, e i pochissimi che sentivano diversamente ebbero a tacere. Poi trapassando a discutere intorno alle cose necessarie per ricondurre stabilmente la pace nella città, furono con buone ragioni respinte le intemperanti richieste e ridotte a queste quattro: 1º Oblio per tutti, e di tutto. 2º Cambiamento dello Stato-maggiore e dei primi Capitani della Civica. 3º Organizzazione e armamento della Riserva. 4º Revoca dei poteri eccezionali. E finalmente fu deliberato una Deputazione di 20 Cittadini si recasse a Firenze a esporre le domande dei Livornesi al Ministero; un'altra di 12 governasse provvisoriamente la città: il comando della forza armata si confidasse all'ufficiale Ghilardi giunto in Livorno in quella stessa mattina.
Prima di proseguire nella narrativa, giovi trattenermi un momento su quelle operazioni. I due fini erano conseguíti; impedire sommosse repubblicane e violenze, remuovere il comando delle armi dal Torres. — E qui importa sapere, che il Ghilardi, come soldato agli stipendii toscani, e spedito dal Ministero Ridolfi con una colonna dei nostri alla guerra lombarda, inspirava fiducia. Le domande dei Livornesi non parevano esorbitanti, considerati i tempi, e paragonate con quelle di cui si fecero portatori nei giorni decorsi, in meno difficili congiunture, il Deputato Malenchini e il Prete Zacchi, e che pure il Ministero aveva promesso esaudire.[79] L'organizzazione e l'armamento della Riserva fu concertato per questo motivo: impossibile appariva levare le armi al Popolo; tanto era strappare i denti al leone! E le armi indisciplinate atterrivano; col partito proposto incominciava ad operarsi lo scevramento fra Popolo e plebe, piaga vergognosa di ordinata città; e amicato il primo, poteva ricorrersi alla forza per disarmare la seconda; le armi composte in mano al Popolo cessavano apparire pericolose; nei regolamenti erami avviso determinare per pena ai falli di disciplina la perdita temporaria o perpetua delle armi; pel quale ordinamento ne veniva di due cose l'una: o il Popolo si disciplinava, e meglio che mai; o non si disciplinava, e perdeva le armi. Nè mi sembrava impossibile riuscire a questo, perchè costringere la universalità a rispettare il comando, massime in tempi torbidi, è arduo, ma agire partitamente sopra i singoli diventa agevole. L'Atto di Accusa, nel § VI, riporta certe espressioni di un Manifesto che nel 25 settembre m'indirizzarono i cittadini: «È incontrastabile, che voi avete diritto alla riconoscenza dei Livornesi, ed è pure incontrastabile che con la vostra influenza ne potete dirigere ogni movimento; compite dunque l'opera, e fate deporre le armi.» Ahimè! In mano dell'Accusa le fronde di alloro diventano cipresso; non dubitate, no, che cotesto elogio ella saprà bene convertire in ronciglio, e ne trarrà la benevola conseguenza, che a senso dei miei stessi concittadini potendo io dirigere a mia posta ogni moto del Popolo, segno è certo che tutto quanto successe di reprensibile fu da me provocato, o da me non impedito; e stringendo in brevi termini, fui complice o impotente, però adesso non per peccato originale, ma per volontà![80] — O miei concittadini, il fato vuole che voi mi abbiate a nuocere e quando mi lodate e quando mi redarguite! E sì che l'Accusa doveva sapere che lo elogio non corrisponde quasi mai alla vera verità; che difficile è sempre potere ciò che si vuole, e che la fortuna del favore popolare
è color d'erba,
Che viene e va, e quei la discolora
Per cui ell'esce della terra acerba.
Ad ogni modo, in quanto alle armi, io aveva provvisto prudentemente e con partito possibile; se questo non avvenne, l'Accusa ne incolpi il Ministero, che ad ogni punto che io cuciva per rammendare i suoi strappi, mi cresceva la mercede di avversione. Necessaria mi pareva la rassegna dei poteri eccezionali, perchè essendo stati provati e riusciti male, ormai bisognava ricorrere alle provvisioni conciliatorie; e così essendo, a che convocare Popoli di Toscana a Pisa come i Sette incontro a Tebe? Perchè, desiderando che il tumulto cessasse, le cause del tumulto mantenevansi? Era, non dirò savio, ma cristiano, educare figli della famiglia medesima ad odiarsi fra loro? Lo so che fu detto, tale non essere il fine dell'adunata, e voglio crederlo: ma intanto appariva così, e le apparenze bastavano perchè effetti pessimi partorissero. — Ora proseguo la storia.
Difficile cosa era che i partiti deliberati non si disfacessero per opera degli agitatori; e la fortuna ne porse loro terribile occasione. Ad un tratto corre voce di agguati tesi ai cittadini per le campagne adiacenti, di vie solcate di polvere, di mine, di feriti, di morti. Ribollono le ire, i persuasi rompono i patti, gli agitatori si scatenano. Accorsi su la ringhiera del Palazzo Municipale, e vidi un mare di capi in tempesta, e la mia voce appunto si udiva come se io l'avessi alzata su la