Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI. Francesco Domenico Guerrazzi
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Queste verità furono predicate ab antiquo dal senno italiano; ma comunque ripetute a sazietà, non riescono meno pericolose a cui le dice, nè meno odiate a cui le dovrebbe ascoltare, e non le ascolta. Molti dei nostri grandi, che le professarono, riposano adesso in Santa Croce sotto monumenti fastosi; se vivessero sarebbero travagliati in carcere; dove ora io mi trovo vicino a cotesto Tempio, sperando a mia posta nel sepolcro, se non fama, riposo.
Giudici e Sacerdoti affermano essere gravi errori cotesti; e non solo lo affermano, ma lo provano con le prigioni e gli esilii: a lasciarli fare brucerebbero ancora. Lo ammonimento: Amate la giustizia, o voi che avete a giudicare la terra, non trovò eco nei loro orecchi. Aghi calamitati vòlti sempre al polo della tirannide e dello errore, un giorno saranno a posta loro giudicati.—Beati quelli di cui il peso sarà trovato giusto in quel giorno!
Francesco Cènci fu alito corrotto di antico genio romano; alito latino uscito fuori da un sepolcro scoperchiato, ma pur sempre alito latino; ebbe indole indomata, talento schernitore, anima implacabile, e cupidità dello immane, del mostruoso, e del grottesco. Se fosse vissuto ai tempi di Giunio Bruto non solo avrebbe condannato i suoi figliuoli, ma, spingendo la violenza contro la natura oltre il possibile, gli avrebbe decapitati di propria mano. Fu vaghissimo di scienza, che poi, come Salomone, dileggiò, chiamandola vanità e travaglio di spirito; ovvero se ne giovò nella guisa, che i Sibariti adoperavano le rose come istrumento di morte. Ebbe ricchezze, e le profuse senza poterle distruggere. Con immensa potenza di sentire, pensare ed operare egli vide pararglisi innanzi le due vie del bene e del male. Breve, a cagione dei tempi, il cerchio del bene: qualche affetto domestico, facoltà di fondare chiese o monasteri, sollevare la povertà con la elemosina, che la perpetua; vita placida; morte oscura; memoria durevole quanto l'eco della voce del monaco, che ti canta il miserere per le navate della parrocchia.
Nè il secolo in cui viveva consentiva estendere le forze portentose dell'anima sua a prove maggiori: cotesti erano giorni di agonia per lo intelletto italiano; il cielo nostro vestiva la cappa di piombo degl'ipocriti di Dante, la quale permetteva a quelli che vegetavano sotto di andare in cento anni appena un'oncia. Nonostante si provò a operare grandemente; uomini e cose gli si strinsero intorno come la camicia di Agamennone, sicchè presto il bene gli venne in fastidio, poi gli parve abbietto, finalmente l'odiò. Si volse al male, e gli disse, come il Demonio,—sii il mio bene!—Gli piacque la parte di Titano, e gli parve magnifica audacia levare la fronte ribelle contro il cielo, e sfidarlo. Riposto nel male ogni suo desiderio, siccome ogni mezzo per salire in fama, lo amò col delirio dello ebbro e con l'ostinazione del calcolatore: oltrepassare le nequizie fino a lui conosciute immaginò che fosse trasportare altrove le colonne di Ercole, e scuoprire nuovi mondi: strinse vincoli di famiglia per la voluttà di lacerarli scelleratamente: coltivò affezioni più care per ispegnerle o sotto il soffio di un crudele scherno, o meno dolorosamente col pugnale: a Dio non credeva, ma lo sentiva come un chiodo in mezzo al cuore; e allora lo bestemmiava brutale a modo dell'orso, che morde lo spiedo che lo ha trafitto pensando sanare la piaga; empio miscuglio, insomma, d'Ajace, di Nerone e di bandito volgare, don Giovanni Tenorio è un frammento del suo carattere[6]. Visse tormento a se e ad altrui: odiò, e fu odiato; si nudrì di male, e il male lo uccise. Morì come forse avrebbe scelto morire; imperciocchè tanto erano giunte le sue scellerate passioni a soffocare la natura, ch'è lecito supporre, che sentendosi ormai grave di anni, e di forze più poco adattato a nuocere, almeno per lungo tempo, il suo truce spirito esultasse della strage del corpo nel pensiero, che varrebbe a precipitare nel sepolcro per via di sangue la sua intera famiglia. Io immagino vedere cotest'anima trista soffiare nei carboni che arroventarono le tanaglie, le quali straziarono le carni del suo figliuolo Giacomo; abbrivare la mazzola che gli ruppe le tempia; e a piene mani raccogliere il sangue grondante dalla scure che recise la testa dei suoi, per bagnarsene il petto come rugiada rinfrescante. E fermamente credo che sarebbe stata opera meritoria non pure disperderne la cenere pei quattro venti dalla terra, ma condannarne la ricordanza a perpetuo oblio, se il Consiglio divino non avesse posto la innocenza accanto al delitto, il vizio accanto alla virtù, il dolore al piacere, la luce alle tenebre;… e però le immanità sue non servissero a dimostrare quale e quanto bello angiolo di amore fosse Beatrice sua figlia, la più semplice, la più fiera, e la più infelice delle donzelle italiane.
Poichè giustizia mi muove a penetrare in cotesta antica sepoltura, io la scoperchio; sicuro di trovarvi la vergine sepolta, come già fu rinvenuto nelle catacombe romane il corpo di santa Cecilia[7] intatto, vestito di una veste bianca simbolo di purità; atteggiata a dolce riposo, con un nastro vermiglio intorno al suo collo di cigno:—cotesto nastro vermiglio è la traccia della scure, che recise un capo divino da un corpo divino!
NOTE
[1] Le donne ricordate sono note abbastanza, tranne Eponina ed Arria. Eponina fu moglie di Giulio Sabino. Ribellatosi costui contro Vespasiano Imperatore, fu vinto, e riparò dentro un sotterraneo; con lui si chiuse la consorte fedele, e quivi stettero dieci anni interi procreando ed allevando figliuoli. Scoperti, e tratti davanti a Vespasiano, non trovarono misericordia, al cospetto dello imperatore crudissimo, tanta fede e tanta miseria. DIONE CASSIO, Stor. l. 66.—Arria ebbe a marito Cecina Peto, uomo consolare. Questi essendo caduto prigione nella sconfitta che toccò Scriboniano, non osava darsi la morte, che Claudio imperatore gli aveva ordinato: allora la valorosa femmina, dopo avere tenuto al suo consorte discorsi adattati a ingagliardirgli il cuore, gli tolse dal fianco il pugnale, e quello appuntandosi al petto, con lieta faccia gli disse: «Mira, Peto, si fa così», e se lo immerse dentro; quindi subito estraendolo tutto fumante di sangue, glielo porse con dolce parlare: «Peto, non fa male! Non dolet, Pete!»; e così favellando moriva. Il marito, senza porre tempo fra mezzo, la forte moglie seguitava nella morte. PLINIO Jun. III. 16.
[2] Filippo Valesio minacciò far condannare come eretico dalla Università di Parigi Giovanni XXII. Benedetto XII piangendo confidava agli ambasciatori di Ludovico il Bavaro imperatore, che il medesimo Re Filippo gli aveva promesso fargli anche peggio che non fu fatto a Bonifazio VIII, se si fosse attentato a sciogliere dalla scomunica il Bavaro. MICHELET, Hist. de France, t. 3.—Più tardi forse, se me ne prende vaghezza, dimostrerò storicamente gli aiuti francesi sul Papato di qual gusto essi sappiano.
[3] Pellegrinaggio del Fanciullo Aroldo.—C. VI. st. 140.
[4] Due scrittori contemporanei, l'uno di maggior fama che merito (THIERS) l'altro di maggior merito che fama (FOSCOLO) hanno discorso, quegli nella Storia del Consolato e dello Impero, questi nei suoi Scritti politici, delle ragioni che persuasero a Napoleone il concordato con la Santa Sede. Chiunque ami conoscere a prova senno italiano a paragone di senno francese che cosa sia, può confrontare le considerazioni dell'uno e dell'altro scrittore. Thiers riporta come eco quanto piacque allo Imperatore dare ad intendere a cui ci volle credere. Il Foscolo penetra dentro al cervello del solenne e dissimulato politico, e mette in luce le vere ragioni che lo condussero a quel passo.
[5] Di voi pastor s'accorse il Vangelista, Quando colei, che siede sovra l'acque, Puttaneggiar co' regi un dì fu vista. DANTE, Inferno, C. XIX;
e Apocalisse, Cap. 17.
[6] Il signore STEHNDALL ha scritto, o piuttosto tradotto, un racconto volgare, che corre intorno ai casi della famiglia Cènci, aggiungendovi parecchie osservazioni di suo. Nel presentare, per così dire, la psicologia di questo immane uomo di Francesco Cènci, in qualche parte io me ne sono giovato; e ciò tanto più dichiaro volentieri, in quanto che noi altri italiani andiamo lieti palesare animo grato a cui mostra amare le cose nostre, e noi; come di altissimo disprezzo proseguiamo cui per maligna ignoranza si fa nostro detrattore. E veramente duole, ma duole assai, che la maggior copia di fatti alterati e di giudizii falsi e ridicoli intorno alle cose e agli uomini italiani muova di Francia. I tedeschi (e possano vergognarsene i francesi)