Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI. Francesco Domenico Guerrazzi
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—Vieni qua, urlava il vecchio rabbioso… vieni qua… portami cotesta roba…
E poichè Virgilio, fingendo non lo sentire, prendeva la via per tornarsene difilato a casa, il Conte imbestiando nel suo furore muggiva:
—Vipera maladetta! Portami il foglio… e tosto… Se ti raggiungo, ti strappo il cuore con le mie proprie mani.
Il fanciullo più, e più sempre affrettava il passo. Francesco, cieco d'ira,
—Nerone!—grida—Qua, Nerone… su… addosso… e con ambedue le —mani aizza il cane contro il figliuolo—addosso… addosso…
Il cane si slancia furiosamente, invano però; chè Virgilio quantunque avesse già percorso buon tratto di via, pure, sembrandogli sentirsi le zanne del mastino nelle vive carni, aveva messo le ali alle piante:—non fuggiva, volava. Salì i gradini a due a due; e con terribile anelito, estenuato di forze, giacque sul pavimento, depositando ai piedi di Beatrice la lettera e il ritratto. La fanciulla l'una e l'altro ripose precipitosa nel seno.
Poco dopo ecco il cane irrompere sopra la terrazza latrando: aveva gli occhi di brace: esalava il fiato fumoso. Beatrice, improvvida a qual partito appigliarsi, volge attorno lo sguardo, e scorge dentro una nicchia un trofeo di armi antiche posto ad ornamento della loggia: afferra una spada, e si pianta dinanzi al giacente fratello. Il mastino feroce a testa bassa si caccia oltre per isbranarlo: la fanciulla animosa, colto il destro, gli mena un colpo così potente, che penetrandogli il petto gli fende il cuore. Il cane si rotola nel proprio sangue, e traendo doloroso guaito spirò.
Sovrasta nuovo pericolo, e più grave. Francesco Cènci sopraggiunge tempestando, con lo stile alla mano: balbuziente per furore, egli grida:
—Dov'è la mala vipera? Morte di Dio! Chi mi ha ammazzato Nerone?…
Chi?
—Io.—
—Ebbene; anche tu… ma no, prima la vipera.—
E si china sul figliuolo per iscannarlo. Beatrice solleva la spada insanguinata, e, puntatala contro il petto di Francesco Cènci, con espressione impossibile a riferirsi dice:
—Padre… non ti accostare…
—Scellerata! Da parte; dico,—e si provava di arrivare il giacente.
Beatrice con voce tremendamente pacata ripetè:
—Padre, non ti accostare!
A cotesto suono, che conteneva a un punto una suprema preghiera ed una suprema minaccia, Francesco Cènci si ristette a contemplarla.
Dov'è la vergine dal dolce sembiante? Gli occhi di Beatrice, dilatati in guisa strana, pare che avventino fiamme: le narici aperte sussultano: le labbra compresse, il seno palpitante, i capelli sciolti le fremono dietro le spalle: la gamba sinistra ferma, e tesa in avanti; diritto il corpo; il pugno manco chiuso, e la destra accosto al fianco armata di spada con la punta in alto, in atto di ferire. Nè pittore mai nè scultore varrebbero ad effigiare cotesto portentoso simulacro, nè la parola lo può. La fanciulla appariva tale, da non sostenerne la vista: paragonarla al cherubino branditore di spada, che difendeva la porta dell'Eden dopo il peccato di Adamo, sarebbe dir niente; perchè come fosse quel cherubino noi non sappiamo: ella era quale si mostra anche oggi la vergine romana, quando rammenta che nasce del sangue di Clelia. Francesco Cènci ne rimase percosso; si pose estatico a contemplarla, lasciò calare la mano armata, gittò via lo stile; sentì per un momento placarsi l'anima. Beatrice anch'essa gittò lontano da se la spada. Il vecchio sporse verso di lei le braccia aperte, esclamando teneramente:
—Sei pur bella fanciulla!… Oh! perchè non mi ami?…
—Io?—Vi amerò… e gli si avventò al collo.
Il padre e la figlia si strinsero in religioso abbracciamento.
Ma il bene durava nell'empio vecchio quanto un baleno. Egli provava per un sentimento di umanità la paura stessa, che altri proverebbe per un rimorso. A un tratto ecco apparire i segni del parossismo del delitto: gli si corrugano gli occhi, le palpebre tremano di quel riso sinistro che faceva abbrividire; le palpa i capelli, il collo le stazzona e le spalle; baciolla e ribaciolla, e nello accostare la bocca al suo orecchio vi sussurrò dentro una parola…
Beatrice declina la faccia livida; si scioglie dallo amplesso del padre, si reca in collo il fratello giacente, e nel partirsi manda contro Francesco Cènci uno sguardo lungo—un fulmine di disprezzo—ch'ebbe potenza d'impietrire il sangue nelle vene a colui, che non temeva uomini, nè Dio.
Egli rimase lungamente immobile, chiuso dentro un profondo pensiero: colà nel suo spirito prese a imperversare una tremenda procella. Ma la voce del male vinceva il muggito dell'uragano; la voce del bene disperata era, e fuggitiva come quella del naufrago. Quali pensieri gli si avvolsero nella mente? Di che cosa dubitò? Che cosa statuì? Chi lo sa! Forse lo stesso Demonio, se si fosse affacciato a vedere lo inferno dell'anima di Francesco Cènci, avrebbe volto altrove impaurito la faccia. Però è da credersi, che in cotesta vertigine di maligni partiti egli si appigliasse al peggiore; conciosiachè battendosi forte della palma destra la fronte, digrignasse fra i denti:
«Or come va? Io, che presumerei comandare al giorno quando si affaccia all'orizzonte: «addietro! splenderai quando te ne darò licenza…» ecco io mi sento arrestare in mezzo del mio cammino da meno, che da un filo di paglia, dalla volontà di una fanciulla. Ahi sciagurata! Il vetro potrà egli resistere, sotto al martello del fabbro? Tutto ha piegato fin qui nella stretta della mia mano di ferro; e tu pure piegherai—o ti stritolerò ad un punto anima ed ossa.
NOTE
[1] Ah! quella chioma Che la delizia fea già degli Amori, Che con le rosee dita all'aura spesso Spargeanla, allor che Beatrice lieta Nei più bei dì di sua bellezza, ai raggi La apponeva del Sole, e lo vincea.
ANFOSSI, Beatrice Cènci.
[2] PETRARCA, Trionfo d'Amore, C. I.
[3] Idem, Rime in morte di Madonna Laura. Son. 63.
[4] Il testo allude ad un fatto narrato da parecchi scrittori dell'antichità. Intorno alla fede ch'ei merita lasciamo che ogni uomo leggendo ne giudichi. La verità è, che Tiberio intendeva riporre Gesù Cristo fra li Dei, e ne mosse proposta in senato; e fu ventura che non ce lo volessero. Intorno al fatto lo riporteremo tal come lo racconta PLUTARCO, nell'opuscolo—degli Oracoli già cessati:—«Trovandosi il vascello del pilota Jamo presso alcune isole del mare Egèo, improvvisamente cessò il vento. Tutte le persone della nave erano ben deste e quasi tutte se la passavano bevendo insieme, allorchè tutto ad un tratto udirono una voce, che veniva dalle isole, e chiamava Jamo. Questi si lasciò due volle chiamare senza rispondere, ma alla terza finalmente non potè più resistere. Quella voce gli comandò, che appena foss'egli arrivato ad un certo luogo dovesse ad alta voce gridare, che il gran Pane era morto. Non vi fu alcuno che non rimanesse colto dallo spavento. Stavasi deliberando se Jamo dovesse obbedire; ma egli stesso conchiuse, che allorquando fossero giunti al luogo indicato, se eravi vento bastante per proseguire il cammino non era necessario dir nulla; ma che se fossero stati ivi trattenuti da troppa calma, era d'uopo eseguire l'ordine ricevuto. Non mancò infatti