Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI. Francesco Domenico Guerrazzi

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Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI - Francesco Domenico Guerrazzi

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si diede a gridare ad alta voce esser morto il gran Pane. Appena ebbe terminato di parlare, da tutte le parti udironsi gemiti e pianti come di un gran numero di persone da tal nuova sorprese, ed afflitte. Tutti coloro ch'erano in nave furono testimoni di tale avventura: a poco a poco se ne sparsero le voci fino a Roma; e avendo lo imperatore Tiberio voluto vedere Jamo in persona, unì alcuni dotti per apprendere da loro chi fosse.»… Che poi il gran Pane fosse Gesù Cristo, vedilo in BOCCACCIO, Genealogia degli Dei, là dove parla del dio Pane.

       Indice

      LA CHIESA DI SAN TOMMASO.

      …..E Belzebub in mezzo.

       PETRARCA, Sonetti.

      «Tanto egli odiava questi suoi figliuoli, che aveva

       fatto nel cortile del suo palazzo una chiesa dedicata

       a san Tommaso, col solo pensiero di seppellirveli

       tutti».

       NOVAES, Storia.

      La chiesa di san Tommaso dei Cènci, comecchè in parte mutata da quello che era, sta tuttavia. Lo dicono monumento vetustissimo, e già ebbe nome: De Fraternitate, ed anche in Capite Molae, o Molarum. Questa notizia ricavasi dal diploma di papa Urbano III ai Canonici di san Lorenzo in Damaso. La chiamarono poi in Capite Molarum come quella che sorgeva prossima al molino della Regola, là dove il Tevere rimase interrato fino dal 1775; e De Fraternitate, ed anche Romanae fraternitatis caput, forse perchè quivi fondarono la prima confraternita donde trassero in successo di tempo esempio e titolo le altre confraternite di Roma. Narra la fama, che il Cincio, vescovo di Sabina, nel 1113 ne consacrasse l'altare. Giulio III la concedeva in giuspatronato a Rocco Cènci nel 1554, con obbligo di restaurarla; cosa che, per essere soprappreso dalla morte, egli non potè adempire; laonde Pio IV nel 1565 spedì nuovamente la Bolla d'investitura a favore di Francesco Cènci figlio di Cristofano, imponendogli il medesimo carico; al quale egli soddisfece, secondo che attesta la seguente iscrizione poeta sopra i muri esterni della chiesa:

      Franciscus Cincius Christophori filìus Et Ecclesiae patronus, Templam hoc Rebus ad divinum cultum et ornatum Necessariis ad perpetuam Rei memorìam exornari ac perfici Curavit. Anno Jubilei 1575[1].

      Quel marmo attestava a chiunque passasse quale, e quanta fosse la pietà di Francesco Conte dei Cènci!—Cosi quasi sempre riscontriamo sinceri gli epitaffi, le iscrizioni, le gazzette officiali, e le orazioni funebri dei cappellani di Corte.

      La chiesa ha forma, a un dipresso, quadrata. Condotta di un miscuglio di ordine dorico, presenta cotesta sconcia depravazione dell'arte, che gli artisti costumano significare col nome di barocco. Contiene cinque cappelle; ha soffitto a crociere, dove anche nei giorni che corrono possiamo osservare l'arme dei Cènci, che fa per impresa campo squartato di bianco e di rosso, con tre lune rosse in campo bianco, e tre lune bianche in campo rosso.

      All'altare maggiore si vede un quadro dipinto a olio della maniera del secolo sesto, o di poco anteriore: è di buona scuola, e rappresenta san Tommaso che tocca la piaga a Gesù. A sinistra dello altare stesso venerano un Crocifisso dipinto, opera del secolo decimo secondo, e a questo alludeva Virgilio nel suo colloquio con Beatrice.

      Intorno a lui raccontami mirabilissime cose. Certo manoscritto antico conservato una volta, e forse anche adesso, nel Campidoglio (non però commesso alla custodia delle oche che salvarono la rupe Tarpeia), firmato da Giacomo Cènci, dichiara come il padre Guardiano in Araceli donasse la prefata devota immagine al medesimo Giacomo, e con giuramento gli affermasse avere davanti a quella più e più volte fatta orazione san Gregorio Magno: nè il buon padre Guardiano si fermava qui; che, proseguendo nella narrazione, attestavagli, cotesto Cristo avere usanza tratto tratto operare miracoli. Se anche di presente la immagine ritenga siffatta virtù, o se l'abbia trasferita in altre, come sarebbe la immagine di Nostra Donna di Rimini, che apre e chiude gli occhi, o l'altra di Tredozio, che piange a un punto e ride[2], io non saprei accertare per ora; ma quando prima sarò, se piace a Dio, liberato dal carcere, mi propongo raccogliere più ampie notizie, e ragguagliarne i miei devoti lettori. Quello però che conosco di certo si è, che il Cristo di san Gregorio Magno per tutto il tempo che durò la vita di Giacomo Cènci si ostinò a non fare miracoli; ed ecco come andò la faccenda.

      Fra Brancazio, (tale era il nome del Guardiano di Araceli) senza che faccia nemmeno mestieri dichiararlo, non donava mica il Cristo per nulla; all'opposto egli imponeva al donatario: primo, che restaurasse a sue spese la facciata della chiesa dei reverendi Padri Francescani in Araceli, il che fu adempito; secondo a rifornire la sacrestia di pianete, piviali, dalmatiche, ammitti, roccetti e simili altri arredi, ed anche questo fu fatto; terzo a fondare una messa quotidiana perpetua all'altare di san Francesco con la elemosina di un ducato, ed anche la messa quotidiana fu fondata: e così i dabbene Padri, avendo trovato il terreno morvido, presero ad avviarsi alla casa di Giacomo spessi ed oscuri, simili in tutto alla schiera delle formiche quando s'imbattono in un mucchio di grano lasciato su l'aia, e non rifinivano mai di cavargli di sotto ora questo, ed ora quell'altro benefizio: dandogli ad intendere, che per quanto ei donasse, già non presumesse risarcire il Convento per la perdita inestimabile del Crocifisso, davanti al quale aveva pregato san Gregorio Magno; imperciocchè, senza contare il pregio del dipinto, ch'era pure d'illustre magistero, gl'infiniti miracoli che soleva operare procacciavano elemosine abbondantissime, e reputazione di santità al luogo e a chi l'abitava non meno proficua. Messere Giacomo Cènci, con tutto che santissimo uomo si fosse, preso nonostante da stizza per la pretesa improntitudine, certo giorno gli disse: «Padre Brancazio, che il Crocifisso di san Gregorio Magno alle sue mani abbia operato miracoli, sarà: lo dice lei, e non ho motivo per dubitarne; però dopo ch'è entrato nella mia cappella le posso giurare da gentiluomo di onore, che non ne ha fatti più». E il Frate, voltandogli bruscamente le spalle, gli rispose: «Mi rincresce dirglielo, spettabile signor Conte; ma questo è segno, che nè lei nè la sua casa sono degni di ricevere queste grazie.» E così messer Giacomo rimase saldato da fra Brancazio.

      Di reliquie poi cotesta chiesa non pativa difetto, e tutti questi tesori ecclesiastici si conservavano dentro un'urna di marmo posta sotto l'altare maggiore. Lascio dei Santi di seconda qualità, chè troppo ci vorrebbe a favellare di tutti, e ricorderò soltanto la piegatura del collo di san Felice dove venne trafitto da un colpo di lancia in Calamina, ora detta Madapor, ed anche Città di san Tommaso, nella India: de pandone circa collum eius in percussione ipsius, come ne fa fede la iscrizione posta sopra la porta minore della medesima chiesa. Ma vedete dove quel benedetto Santo girava per cercare la morte, mentre questa è sicuro che sarebbe andata a trovarlo anche standosene quieto e tranquillo a casa sua![3]

      Chiedo licenza ai miei lettori (i quali so che non me la negheranno) di passare sotto silenzio le altre cappelle; molto più che, gli assicuro io, non meritano speciale menzione. Non pertanto piacemi ricordare come la chiesa e le case dei Cènci fossero erette sopra le rovine del Teatro Balbo…

      Una chiesa sopra un teatro! I secoli trapassano come i vetri dipinti della lanterna magica; il mondo è la parete dove si riflettono le immagini loro, e nel continuo passaggio le cose più strane si succedono senza dar tempo a compire un pianto, o un riso. Noi fabbrichiamo sopra i sepolcri dei nostri padri; le generazioni future s'impazientano di fabbricare su quelli di noi. Cenere sopra cenere; e l'universo si allarga e si feconda per queste incessanti alluvioni della morte. Dove gli umani sollazzavansi un giorno, oggi pregano; forse vi decapiteranno domani, domani l'altro danzeranno. La Fortuna, gittata via la benda, all'antica follia aggiunse la ebbrezza nuova; e, fatta Menade, percuote orribilmente un suo crotalo infernale, eccitando al

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