Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI. Francesco Domenico Guerrazzi

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Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI - Francesco Domenico Guerrazzi

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italiani.

      [7] Io non mi posso astenere dal riportare qui un frammento della Storia della Scultura del Conte CICOGNARA, sia perchè in se stesso merita considerazione, sia perchè si versi appunto intorno alle arti dei tempi, nei quali successero i casi che noi raccontiamo: «La storia di queste arti presenta un convincimento di tale verità nella bellissima figura scolpita da Stefano da Maderno per la chiesa di Santa Cecilia in Trastevere; opera elegantissima, riuscita a quel modo malgrado la corruzione dei tempi, e che nessuno potrebbe mai credere eseguita dallo stesso artefice, che nella Cappella di Paolo V scolpì poi la storia di una battaglia…. Questa graziosa statua giacente rappresenta un corpo morto, come se allora fosse caduto mollemente sul terreno, con l'estremità bene disposte, e con tutta la decenza nello assetto dei panneggiamenti, tenendo la testa rivolta allo ingiù e avviluppata in una benda, senza che inopportunamente si scorga lo irrigidire dei corpi freddi per morte. Le pieghe vi sono facili, e tutta la grazia spira dalla persona, che si vede esser giovane e gentile, quantunque asconda la faccia; le forme generali e le belle estremità che si mostrano, danno a vedere con quanta grazia e con quanta scelta sia stata imitata la natura in quel posare sì dolcemente. Or dunque come poteva ciò farsi, se di tutti gli artefici, che abbiamo qui nominati, nessuno mai scolpì cosa che con questa potesse venire al confronto?…. Due ragioni evidentemente spiegano questo fenomeno nella storia dell'arte. La prima, che essendo stato trovato in quel tempo il corpo di santa Cecilia intatto in una cassa, ed atteggiato tal come si vede la statua, venne ordinato per buona ventura che lo artefice imitasse la giacitura del medesimo, cosicchè ponendosi il guardo al monumento, si vedesse tutta la somiglianza al corpo della vergine incorrotta, che Clemente VIII nell'anno 1599 fece riporre in una magnifica cassa di argento, dopo la miracolosa sua liberazione dalla podagra». Vol. VI. C. 2.—Così il corpo di santa Cecilia con la testa mozza fu trovato precisamente nell'anno in cui Beatrice Cènci ebbe recisa la sua.

       Indice

      NERONE.

      Fanciulla del dolore, o tu che sai

       Piacere anco sepolta, e ricoperta

       Dal silenzio di trecento anni, bella

       Sai tornare alla idea come nel giorno

       Che te lo Amor rapiva, o tu delizia

       Dei racconti di queste itale care

       Fanciulle, che spirar sai dalle stesse

       Dipinte tele, onde l'occhio fatato

       Dal tuo sguardo, in imago ancor ti cerca

       Rediviva per Roma, abbi il mio pianto.

       ANFOSSI, Beatrice Cènci.

      Era bella come il pensiero di Dio, quando mosse innamorato a creare la madre dei viventi:—era cara quanto i suoi ricordi. L'Amore con le mani di rosa delineò le curve soavissime del suo volto dilicato; ed appoggiandole il dito sul mento per contemplare la sua gentile fattura, vi lasciò la fossetta;—segno veramente di amore. La sua bocca rassomiglia un fiore testè colto in paradiso, tutto fragrante di divinità; la quale diffondendosi intorno alla persona fa reputarla non terrena creatura: così gli antichi cantarono, un senso di ambrosia rivelasse ai mortali la presenza di un Dio. I suoi occhi spesso cercavano il cielo, e lunga pezza ve li teneva fissi con immenso desiderio, sia per contemplare la patria, della quale ben presto tornerebbe cittadina; sia per iscorgervi spettacoli misteriosi rivelati a lei sola; sia, finalmente, che l'amata immagine materna quinci con la voce la chiamasse e co' cenni. Certo fra gli occhi della inclita fanciulla e lo emisfero nostro quando esulta sereno traluceva, dirò quasi, una parentela, imperciocchè entrambi apparissero formati col medesimo azzurro:—entrambi annunziassero la gloria del Creatore. Quando, declinandoli alla terra, ella considerava cosa o persona, gli apriva splendidi ed acuti per modo, che paresse dilatare l'anima e la intelligenza con quelli: allora chiunque le stava davanti, se non si sentiva innocentissimo di cuore portava frettoloso la mano sul petto, dubitando che lo involucro della carne non bastasse a celarle i pensieri riposti della colpa; altri poi per tenerezza lacrimava: per ogni dove li girasse l'aria diventava più chiara, il cielo più lieto. Se interveniva a balli notturni, ecco la luce delle fiaccole per virtù dei suoi occhi raddoppiava; le note armoniche sfavillavano più melodiose, e il piacere si versava a onde sopra i giovani capi. In qualunque punto del festino ella fosse scomparsa, la noia soffiava un alito ghiacciato sulla universale esultanza. La sventura certo aveva battuto le ale intorno cotesta fronte bianca di giglio; ma l'era venuto meno lo ardimento per lasciarvi sopra una traccia inamabile, e passò oltre. La preghiera dei mortali avrebbe potuto riposare su quella fronte, per librarsi quinci più pura verso il trono di Dio. Nei giorni giocondi, ahi rari!, della sua vita ella si compiacque talora sciogliere con giovanile baldanza il volume delle chiome bionde, e apporle al sole; quasi volesse instituire gara co' raggi di lui: ma il sole le circondava amoroso di tale uno splendore, che la gente tremava di reverenza e di piacere a riguardarla, reputandola una santa scesa dal cielo circonfusa dal nimbo radiato[1].

      O Bellezza! Io dai primi anni ti ho alzato un altare nell'anima, dove ti sacrifico i più dolci dei miei pensieri;—pensieri che, me levando da questa creta mortale, mi avvicinano al Creatore di tutta bellezza; ma nè io ho parole, nè credo che veruno umano eloquio le possieda, capaci di significarti degnamente: se potessi appormi la carta sul cuore, e improntarla dei suoi palpiti, forse aprirei alle genti concetti non mai più uditi: però questo nè a me, nè ad altri fu concesso, e le mie immagini è forza che si rivelino incomplete, vaghe, e confuse; onde se la fantasia di chi legge non supplisce al difetto, io dispero farmi comprendere. Oh da quante catene è stretta quaggiù l'anima immortale!

      Bellezza, Amore, voi eravate ai fianchi di Dio nel giorno della creazione; egli vi lasciò suoi primi vicarii sopra la terra. La bruttezza e l'odio vennero più tardi, faville scoppiate insieme dal primo fulmine che Dio avventò contro l'uomo, quando lo condannava allo affanno e alla morte. Il culto della Bellezza e dello Amore riconduce la nostra schiatta diseredata alla sua origine divina.

      O Francesco Petrarca, tu che per prova intendesti amore; dopo tanti dolci concetti, con quale amaro liquore ti bagnò il labbro Calliope quando dettasti questi versi ingiocondi:

      Ei nacque d'ozio, e di lascivia umana, Nudrito di pensier dolci e soavi, Fatto signore e dio da gente vana?[2]

      E senza amore dove sarebbe adesso il tuo nome? L'Africa certo, e il dotto favellìo delle tue epistole non farebbero cercare il tuo volume. Tu saresti, come tanti altri scrittori, posto a modo di medaglia antica dentro lo scaffale, per informare chi avesse voglia di saperlo, che tu vivesti un dì. Se amore nasce da lascivia, o come avviene che nel muovere degli occhi onesti e tardi della tua donna tu vedevi il dolce lume, che ti mostrava la via che al ciel conduce? Se in cuore umano fuoco di amore poco dura dove occhio e tatto spesso nol raccenda, o come, dopo la morte, ti compariva Laura tutta accesa nei raggi di sua stella, e tu le muovevi pietose parole, ed ella or sì, or no pareva rispondesse; finchè, risensando dal mesto vaneggiare, dicevi alla tua mente:

      ….. tu se' ingannata; Sai che in mille trecentoquarantotto Il dì sesto d'aprile, in l'ora prima, Del corpo uscìo quell'anima beata?[3]

      Ah! se la terra avesse sepolto a un punto la bella vesta delle membra di Laura e la memoria del suo amore, i tuoi canti suonerebbero esercitazioni di gaia scienza, eco delle canzoni dei Trovatori, gemiti mentiti di cuore bugiardo; e se così fosse, io ti compiangerei perchè avresti tradito i posteri, e te.

      Beatrice stava seduta sopra un verone del palazzo Cènci, che guardava il giardino: in grembo ella teneva un fanciullo,

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