Poesie scelte. Giovanni Prati
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Quegli un amico è di Leoni, e sorge;
«E’ dov’è, grida: ditelo! Non monta:
Lo sapea da gran tempo. Or via: parole,
Non sospiri; parole vi dimando!
Non mi fate morir!…»
«Egli vi lascia
Per mia bocca un addio. Di perdonargli
I patiti dolori ei vi scongiura;
E così solo e povero… veleggia
Verso la Francia!»
La misera donna
Soffocò un urlo; e rassegnata al cielo
Alzò le mani, e non avea parole
Altre che queste:
«Il meritai! Doveva
Esser così. Sotto il giudicio vostro
Io m’inchino, o Signor. Contro vi venni,
Mal nata polve, e voi saliste in ira
E m’avete percossa…
Il meritai!»
CANTO QUINTO
Deh, venitemi intorno, estri gentili
Della terra del Sol, dalle gioconde
Belle odalische, voluttà promessa
Del paradiso; e freman le ricurve
Arpe, miste al romor delle fontane
Correnti in letto di corallo e perle;
E della mesta Rosellana al canto
Dall’ardue torri lo stambùl risponda,
Mentre scherzano i silfi entro al fogliame
Delle mistiche palme, e i flessüosi
Giovinetti rosai dell’Ellesponto
Levano un nembo di celesti odori!
Deh, venitemi intorno, innamorate
Fantasie di quei cieli, a consolarmi
La mente e il carme, per sì lungo pondo
Di dolor contristati!
Io così prego,
Ma renitenti alle invocate gioie
Non rispondon le corde, e dalla triste
Anima il vivo imaginar dilegua.
Alla fuggente prora apresi il mare.
Così fuggisser le memorie infami
Che lasciasti o Leoni, avvinte al lido!
Altri, cui tocca la pietà profonda
Della misera donna, a te daranno
Di tristissimo il nome; altri, cui l’uso
D’abbandonar necessità crudele
Fe’ parer l’abbandono, un motto appena
Sibileran dai labbri, e sarà incerto
Se sia pietate o scherno, o indifferente
Rumor di voce che col vento passa:
Pochi dal cor sospireran tacendo,
Pochi tremanti della propria polve,
Che il giudicio dell’uom lasciano a Dio.
Quando si seppe di quel novo caso,
Misto a vili racconti, onde sul capo
D’Edmenegarda ripiombâr gli oltraggi,
In ferite s’aperse, e grondò sangue
L’anima altera, affettüosa e degna
Di quel misero Arrigo.
Egli tradito,
Privo per lei delle più sante gioie
Che dispensa la vita, accompagnato
Da perenni vergogne, egli l’amava…
Ancor l’amava! Era la sua fanciulla,
Vista sì bella sulle consce rive
Del Tagliamento; era la dolce amica
Del segreto suo talamo; la madre
Di quei due fanciulletti, ultimo bene
Ch’egli avesse nel mondo; or così sola,
Così deserta, e misera, e percossa
Dalla terra e da Dio!…
Battea d’acerba
Gioia e d’orrido affanno il cor d’Arrigo
Confusamente, e prorompea;
«Son giunti
Questi giorni una volta! Edmenegarda,
Li volesti; e son giunti; e non è dritto
Che nessun te li tolga. Il lutto e l’onta
Nella mia casa hai seminato; or cogli,
Cogli, ché è tuo, di quella dura pianta
Il durissimo frutto. Oh pienamente
Vendicato son io; ma troppo, ahi! costa
Quest’amara vendetta. E chi sa come,
Come, adesso, ai fuggiti anni ella pensa!
Quante lacrime sparge; ed una mano
Non aver che le terga, ed una voce
Non udir che la chiami e la consoli!
Povera infortunata!… Io, che dovrei
Maledirti, oblïarti, io sento il peso
De’ tuoi dolori, io solo! Oh questo pianto,
Che frenai da gran tempo, uopo è che scorra.
Così bastasse!»
E in furïosi e torvi
Pensamenti quel suo spirito errava
Dietro al vil fuggitivo; ed arrivarlo
Avria voluto, e dirgli: Hai lacerato
La vita mia; quel vago fior m’hai tolto,
L’hai lasciato languir – perfido! – rendi
Conto col sangue.
E l’aspre alle dolenti
Cose mescendo, rasciugava gli occhi,
Che tornavan per forza a inumidirsi,
E divorava i fremiti, e in disparte
Torceva il capo. E que’ suoi due angioletti,
Quasi con senso di pietà celeste,
Senza parole, gli piangean da lato.
Ma una più tetra e desolata stanza,
E ben diversa dal palagio antico,
D’ombre s’avvolge, e da quell’ombre un cupo
Gemito insorge, e in una febbre ardente
Trangoscia un core che morir non puote.
E tra due mani discarnate e stanche
Langue il lavoro, sovra cui s’incurva
La debil vita a guadagnarsi il pane.
O Edmenegarda in così verde etade,
Ormai per te sì miserabil fatta,
Che la stessa Pietà non ha più accento
Per consolarti! Orribili pensieri
Ti si volgono in mente, e a quando a quando
Incapace ti senti a soggiogarli:
Sì turbinosi assalgono.
Infelice!
Da quell’orlo sacrilego rimovi
Gli ammalïati sguardi. All’acre punta
Di quel pugnal non accostarti.