L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi

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L'assedio di Firenze - Francesco Domenico Guerrazzi

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dovizioso di gualdrappa, di frontale e di ogni altro arnese consueto; cotesta non pareva cavalcatura del pontefice, solito a procedere in lettiga, o montato sopra mula o palafreni. Carlo, di aria impaziente e di luce, desideroso di rinfrescarsi il sangue nel bello aspetto del cielo sereno, perocchè un cielo sereno d'Italia in qualunque stagione sia di per sè stesso una festa e infonda tale conforto nel cuore che indarno speri da gioie artificiali. Carlo stese pronte le mani per acconciare alquanto, siccome avviene ai cavalieri, la gualdrappa e le staffe, — e quindi balzare in arcione.

      Ma lo fermava pel braccio il pontefice e in suono di umiltà gli diceva:

      «Non farlo, figliuolo mio e imperatore invitto; mi basta la umanità che fin qui mi hai dimostrato...»

      Carlo lo guardava attonito: — all'improvviso non comprendeva; — poi si accorse essere cotesto il cavallo del pontefice, ed egli avere per errore umiliata la dignità imperiale fino a fare mostra di volergli tenere la staffa; vinto da ineffabile angoscia, aperse le labbra tremanti e favellò:

      «Veramente alla persona vostra...»

      «La nostra persona», interruppe il pontefice, «di per sè stessa è nulla, ma poichè ella rappresenta il Creatore di tutte cose, forza ella è che le creature ci si curvino dinanzi...» E con giovanile leggerezza salito sul destriero salutava della mano lo imperatore e da lui con lo immenso suo seguito si dipartiva.

      I partigiani di Roma, i quali videro da lontano quell'atto, esultarono, immaginando rinnovarsi i bei tempi di papa Gregorio e di papa Innocenzo. Tanto vero è che spesse volte l'odio e l'amore, più che d'altro, dipendono dal modo di guardare da lontano o da presso.

      Carlo punge il suo nobile corsiero; la corona imperiale sì lo molesta che talora gli prorompono le lagrime dagli occhi. Una mano di Bolognesi, Angelo Ranunzio, Giulio Cesarino, il marchese dell'Anguillara, il Rangone, il Cibo ed altri infiniti portano bandiera e gonfaloni con le chiavi, con l'aquila, rossi, bianchi, gialli e neri, e gli sventolano al cospetto dell'imperatore. Alla fantasia accesa di Carlo sembravano un turbine di spettri de' suoi antenati che gli s'avvolgesse intorno alla testa, e l'onta fatta alla memoria loro lamentasse, la viltà sua gli garrisse. Il trambusto delle voci e dei gridi, il frastuono degli istrumenti ed il suo nome ricorrente tra mezzo, urlato in tutti i suoni, lo atterrivano, come se l'inferno si fosse scatenato per dirgli vituperio.

      Allora aborrì i campi aperti, il sole, la gloria terrena, e sospirò un asilo tranquillo, comunque ignorato, — allora desiderò la cocolla di frate scambiare col suo manto imperiale, e vide di passo in passo farsi più vicino alla sua imperiale magione, coll'anelito del marinaro il quale dopo un viaggio pieno di tempeste e di pericoli saluta la riva; — vi pose appena il piede, che, senza aspettare la solita accompagnatura, ogni qualunque cerimonia mettendo da parte, salì veloce e, licenziati gli altri, si chiuse nella sala privata insieme coll'astrologo Agrippa. Qui, libero da ogni sguardo molesto, spogliò le vesti imperiali e le sacerdotali di cui lo avevano avviluppato, e tempestando le gittò in questo e in quel lato, e...

      «Al corpo di Dio!» diceva in suono di lamento, «come la camicia di Nesso, costoro hanno stillato il sangue nelle mie vene.»

      Quindi le mani cacciando alla corona, se la tolse impetuosamente e la scaraventò[96] di contro alla parete; molti capelli essendosi attorti per le punte e pel cerchio, egli se gli strappò con acuto dolore, e prorompendo in un urlo disperato, ambe le mani portò di nuovo alla testa, esclamando:

      «Ah! mi ha portato via il cranio e il cervello. — Agrippa, vieni qua, guarda diligentemente; — per certo avvelenarono la corona...»

      Agrippa guardò, e vide che la corona gravissima gli aveva intorno alla fronte inciso un solco profondo in mezzo, di color di piombo, digradante ai lati in vermiglio acceso.

      «Stia pur lieta la Maestà Vostra; io l'assicuro che non è veleno...»

      «Per santo Iacopo di Gallizia!» esclama l'imperatore sentendo forte bussare alle porte, «chi è che osa sturbarmi?»

      «Maestà!» con tal una voce che, più che ad altro, si assomigliava per la paura al belare della pecora, rispose il sire di Croy, novellamente promosso al grado di conte; «il banchetto è apprestato; — non manca che la Sacra Maestà vostra per dare acqua alle mani...»

      «Aspettino! io non ho fame.» E poi di nuovo volgendosi all'Agrippa continuava: «O dunque che cosa è ella?»

      «Il sangue acceso, — l'anima esaltata dall'insolito giubilo.»

      «Giubilo! Hai tu mai incontrato uomo di plebe più avvilito di me? Hai tu veduto quali modi ostenti meco — imperatore e re — cotesta schiatta di mercanti? Avevano tra noi convenuto ch'io facessi l'atto del prostrarmi, ed egli mi avrebbe rilevato a mezzo... invece egli finse dimenticarmi ai suoi piedi... ha bevuto un lungo sorso di gioia del suo trionfo e della mia stupidità. — Ora tutta l'acqua dell'oceano non varrà a lavarmi dalla fronte macchia siffatta. — Dammi l'elmetto, Agrippa: — cuopri la mia vergogna sotto il ferro del guerriero: — mi abbisogna vincere almeno dieci battaglie per diventare soffribile a me stesso; — io, vedi, mi disprezzo; e dispero ormai questo mio capo possa contenere il disegno di dominare sul mondo, dacchè ha toccato i piedi d'un uomo. — E tu, Agrippa, mi hai dunque deluso quando traevi l'oroscopo? Così si avverano i tuoi presagi? Se' tu l'ingannatore, — o la tua scienza è bugiarda?...»

      «Non proseguite, Sacra Corona, o le stelle si vestiranno a lutto per l'angoscia dei vostri rimbrotti. Se volete dominare sul mondo, cominciate a dominare sopra voi stesso, nè consentite che l'ira vi tragga a maledire la scienza del re Salomone, la scienza divina. — A dovere era tratto l'oroscopo; — i cieli non mentiscono; — la vostra carriera luminosa è tutta descritta lassù nel cospetto eterno: — noi per avventura male lo applicammo, e questo punto, che noi reputavamo rappresentato dalla congiunzione della vostra stella con Giove, forse era compreso dal breve scontro col tardo pianeta di Saturno. E poi voi stesso non contemplaste la vostra stella?»

      «Sì, certo: — io la vidi... ma adesso, più dei miei conquisti futuri, più assai dei miei trionfi passati, forte mi stringe un desiderio intenso... un'agonia...»

      «Di che cosa, Maestà? Non istanno nelle vostre mani il bene e il male? Non fate voi la pioggia ed il sereno? Ad ogni vostro pensiero non potete aggiungere il fulmine della vostra potenza per volerlo eseguito?»

      «Potente come sono, in questo non posso nulla, perchè io sono d'impedimento a me stesso. — Se quando tenni questo papa prigione, lo avessi fatto rinchiudere in una gabbia ed esporre in ludibrio ai popoli!... ma ora io l'ho innalzato, alla faccia del mondo, ho sancito la sua autorità... gli posi in mano le verghe per flagellarmi.»

      «Io conosco il mezzo alla vendetta.»

      «Ah! io ti darei un ducato», riprese Cesare, e per poco non gli gettava le braccia al collo; «in qual parte di cielo lo leggevi? Spiegalo... io ti ascolterò senza curare di fame, nè di sonno.»

      «Non l'ho letto nel cielo: — sibbene nello inferno.»

      «Nell'inferno, Agrippa?»

      «Non vi atterrite, Maestà; — voi sapete che dalle arti diaboliche, come ogni altro cristiano, meritamente io rifugga; voleva dire nel cuore dell'uomo. — Sapete voi che Clemente prima di esser papa fu Giulio figliuolo bastardo di Giuliano dei Medici trucidato nella congiura dei Pazzi?»

      «Pur troppo lo so...»

      «Sapete voi come Lione X su i primi mesi del suo pontificato lo eleggesse cardinale?»

      «Anche questo sapevamo.»

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