L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
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Читать онлайн книгу L'assedio di Firenze - Francesco Domenico Guerrazzi страница 40
«Ecco gli oratori fiorentini.»
Mentre andava il Bandino, egli curvò più del solito le spalle, — il messale si trasse davanti, — accomodò il Cristo; — poi stette in sembianza impassibile ad aspettare.
Si apersero le porte, e comparvero Nicolò Capponi, Luigi Soderini, Jacopo Guicciardini e Andreuolo di messer Otto Nicolini, oratori del comune di Fiorenza. — Giunti appena che furono al cospetto del Pontefice, e si prostrarono al bacio dei santi piedi: ma Clemente, rilevandoli con la voce e co' gesti favellava:
«Alzatevi, messere Nicolò e voi messere Andreuolo; su via, messeri Luigi e Iacopo, sedetevi. L'imperatore ha da curvarsi al cospetto nostro e baciarci i piedi: — voi poi siete parenti, amici, tutti figliuoli della medesima madre. — Messere Nicolò, che cosa fanno Piero e Filippo vostri? Venite, parliamo di Fiorenza nostra in famiglia. A quale stato la povera città si trova adesso condotta?»
«Dentro», rispose severo messere Nicolò, «non si patisce difetto di animo nè di vettovaglia nè d'armi: — i barbari fuori, raccolti ai nostri danni, tagliano le viti, ardono gli ulivi, le case distruggono, i popoli uccidono o sperdono. — Tanta e sì grande ingiuria appena potrebbe cagionare il terremoto; più poca ne farà il giorno finale; — dappertutto seminano il deserto...»[104]
«O Fiorenza mia, dove ti meneranno questi sconsigliati? Vediamo, fratelli, di rinvenire fra noi modo che valga a salvarla dalla rovina. — Accordiamoci a cacciare via i barbari che la divorano... queste immani bestie tedesche, che dalla voce e dall'aspetto in fuori nessuna parte hanno di uomo, come scriveva la buona anima del nostro messere Nicolò....»[105]
«Padre Santo, fuori di misura piacevole riesce allo spirito nostro contristato», riprese a dire il Capponi, «l'intendere la buona mente della Santità Vostra verso la patria comune... vostra madre e mia. Brevi i patti della pace e consentanei al giusto. La libertà si conservi, si restituisca il dominio, del presente reggimento nulla s'innuovi.»
«Libertà!» interruppe il Pontefice a mano a mano infervorandosi nel dire: «e parvi libertà questa dove senza cagione parte de' cittadini s'imprigionano, molti più si perseguitano, alcuni si mettono crudelissimamente a morte? Paionvi modi civili ardere il palazzo Salviati a Montughi, ardere il nostro a Careggi, proporre di spianare l'altro in Fiorenza e farvi una piazza in vituperio della casa Medici chiamata dei Muli? Onesto ed ordinato vivere è quello della città dove i più tristi e senza pena penetrano nei tempi di Dio, le immagini votive dei miei maggiori riducono in pezzi, me tamburano e vogliono dichiarare ribelle, me vicario di Cristo appiccano in casa Cosimino?[106] Una mano di ribaldi è prevalsa e tirannicamente vi governa; niuna signoria più grave di quella dello schiavo diventato padrone. Almeno nei tumulti dei Ciompi sorse un Michele Lando, uomo di cuore retto, di cui lo spirito camminava nelle vie del Signore. Ora chi vi regge? Un Francesco Carduccio, un fallito, un uomo che cerca, pescando nelle acque torbe, fare suo pro dell'altrui, che i beni dei servi di Dio sacrilegiamente vende per abbandonarvi un giorno, sazio dell'oro e del sangue di voi! — Sconsigliati! sconsigliati! Ravvedetevi una volta!»
«Beatitudine, questo modo di vivere piace all'universale. Allora qual cosa rimane al semplice cittadino? O accomodarsi al volere dei più, o tôrre bando volontario dalla patria. Chiunque pretende imporre un reggimento nuovo al suo paese, e sia pure migliore del vecchio, contro alla volontà dei cittadini, quegli è tiranno...»
«Or bene, messer Nicolò», riprende il Pontefice, «fate piena balìa, adunate il parlamento, e stiamoci a quanto delibererà il popolo.»
«Popolo sì, non plebe; la plebe vedemmo sempre corriva ai propri danni; voi conoscete il ricordo posto nella sala della Signoria:
Che chi cerca di fare il parlamento,
Cerca tôrti di mano il reggimento.»
«Non ci aspettavamo da voi udire citati, o messere Nicolò, i barbari versi dell'apostata Savonarola...»
«Dite piuttosto del martire della libertà.»
«Su questo proposito non favelliamo. Ora dunque proponeteci voi tale forma di governo per cui i miei parenti tornando in Fiorenza stieno sicuri che non verranno loro troncati i sonni da un ferro nel cuore; per la quale non temano che un giorno le proprie ossa e quelle dei loro padri sieno tolte dalle antiche sepolture e date miserabile pasto alla fame dei cani.»
«Siffatte abbominazioni noi non abbiamo commesso...»
«No?» sempre incalzando continua il Pontefice, «sarebbe questo il primo sangue dei Medici che bagna il terreno della patria? La prima volta questa che una madre di nostra casa piange sopra i figliuoli trucidati? — Mio padre Giuliano non giacque miseramente trafitto nel santuario? L'inclito zio Lorenzo non salvò a gran pena la vita dal pugnale nemico? Quanta mostrarono i Medici benevolenza ed amore ai Fiorentini, altrettanto questi gli ricambiarono con rabbiosissimo odio. La storia della nostra famiglia è una serie di benefizii invano prodigati, di morti, di esilii e di confisce immeritamente sofferte, crudelmente decretate. E voi stesso, messere Nicolò, diteci: qualcosa guadagnaste voi con questo ingrato popolo maligno in guiderdone delle vostre cure, degli uffici penosi, dei travagli durati? Per poco stette non vi mozzassero il capo.»
«Santità, quando mi elessero gonfaloniere, mi proibirono espressamente mantenere corrispondenze particolari coi signori stranieri: mandando lettere a Vostra Beatitudine e da lei ricevendone, con tutto che io lo facessi per bene, non disobbedivo meno all'ordine del popolo; egli poteva punirmi; non volle; — mi rimandò dall'ufficio, e in questo operò generosamente, non iniquamente.»
«Or via, nobili uomini, datemi ascolto: io voglio abbia un reggimento Fiorenza che, senza offendere la libertà, una della mia famiglia, o Ippolito o Alessandro, sia considerato come principale cittadino, voi altri ottimati della città gli componiate un senato il quale insieme con lui attenda alle pubbliche bisogne. Poichè le fortune e la virtù di per sè stesse distinguono l'uomo e il cittadino della povertà e dalla ignoranza, sanzioniamo con legge quanto apparisce necessità di natura.»
«I padri nostri si legarono una volta, combatterono i grandi e li vinsero: adesso noi, degeneri dalla virtù paterna, vorremo a nostra posta istituirci grandi e porre nella nostra terra il mal germe di prossima discordia?...»
Clemente soprastette alquanto prima di rispondere, imperciocchè vedeva ogni arte riuscirgli meno; alfine, tenendo la faccia dimessa a terra favellò:
«Rimettetevi dunque nelle mie braccia: io mi comporterò con voi non come sudditi ribelli, ma come figliuoli traviati.»
Iacopo Guicciardini, troppo diverso da Francesco l'istorico di triste memoria, camminava svisceratissimo della libertà; — di animo audace, pronto di lingua; — lo avevano aggiunto quarto all'ambasceria per opera dei Piagnoni o Arrabbiati, onde con la sua avventatezza temperasse la pacata natura degli altri. Fino a quel punto, di ciò caldamente supplicato dai compagni, taceva; adesso poi, sentendosi divampare il sangue, l'ira prorompergli dai precordii, gridò:
«Sudditi ribelli! Alla croce di Dio, da quando in qua siete voi re di Fiorenza, Giulio dei Medici? Cristo solo governa come principe la nostra città....»
«Noi siamo vicario di Cristo.»
«Per proteggere», replica il Guicciardino, «non già per distruggere; per beneficare, non per uccidere. Cristo abita nei cieli: in terra quella signoria che noi gli concediamo egli prende. Sua legge è l'Evangelo, legge che predica gli uomini liberi ed eguali. E voi osate chiamarvi vicario di Cristo — mostrateci il mandato;