Abissinia: Giornale di un viaggio. Giuseppe Vigoni
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Due o tre giorni lavorarono fantasia e braccia per comporre il menu e prepararlo coi pochi mezzi che si avevano, dove non si può trovare che pura carne e qualche pesce; ma l'abilità del capo-cuoco, il Filippini, seppe disimpegnarsi discretamente.
All'imbrunire del giorno fissato arriva la processione degli invitati che si ricevono in corte, mentre si corre a dar fuoco alle candele, poi si da il segnale perchè la comitiva salga. Nella prima camera il Tagliabue aveva disegnato a carbone un medaglione con un immaginario re Giovanni, riconoscibile dall'iscrizione, che diede origine ai primi atti di stupore, che furono poi innumerevoli, quando sollevate le cortine si presentò la gran scena della sala del banchetto. L'arte culinaria del nostro compagno fu molto lodata, e i fatti constatarono che lo fu sinceramente e non per puro complimento: i vini d'Italia trovati squisiti, talchè il pranzo fu molto allegro e i brindisi assai numerosi. Era certo la prima volta che in Massaua si trovavano tanti Italiani riuniti, e la festa era tale che fece a parecchi dimenticare i bicchieri già vuotati, cui aggiunta la proprietà del Sassella e dell'Inferno di scaldare le orecchie e paralizzare le gambe, si ebbe una chiusura molto chiassosa e non scevra di incidenti abbastanza comici. Il servizio fu fatto piuttosto regolarmente alternando noi con un po' di disinvoltura la parte dell'anfitrione con quella del cameriere, non senza ritirare qualche volta un piatto sporco da destra per rimetterlo a sinistra, se non ve ne erano pronti di ricambio. In complesso gli invitati furono contenti e noi nella nostra modestia abbastanza soddisfatti, tanto più che, la mattina dopo, parecchi avevano le idee piuttosto confuse e una ricordanza un po' svanita di quanto avvenne da metà pranzo in avanti.
Dopo qualche ora di sonno, con Ferrari partimmo in filuka per portarci ad una partita di caccia ad Arkiko, grosso villaggio lungo la spiaggia a mezzogiorno di Massaua. Vi trovammo il mudir (capo) cordialissimo, giovane dall'aspetto aperto, sorridente, simpatico, che ci destinò un'ampia capanna circondata da un cortile limitato da pali e stuoie: ci fece subito portare due angareb, del caffè, e chiamò una schiava perchè sbarazzasse quanto ingombrava. Un breve giro nei dintorni ci fornì il pranzo che noi stessi cucinammo, pensando, ma senza invidia, ai nostri amici d'Italia che alla stessa ora stavano mettendo il frak per l'apertura del teatro. Anche noi avemmo però il nostro spettacolo di canto, chè poco dopo si sentirono le grida dello sciacallo e della jena che ululavano appena fuori dalla capanna, agognando alle interiori del nostro lepre. La mattina, quando partimmo, queste erano infatti scomparse. Seguiti a distanza da un somarello che ci portava l'acqua dolce, girammo tutto il giorno in terreni sabbiosi, dove trovammo cignali, gazzelle, lepri, faraone, ma dobbiamo accusare circostanze eccezionali, per salvare la nostra fama di cacciatori, se il risultato non fu troppo soddisfacente.
Verso le tre si addensarono neri nuvoloni nelle vallate circostanti e in pochi minuti fummo raggiunti da una pioggia torrenziale: non una capanna, non un albero, non una roccia che ne potesse riparare: fu forza prendercela con disinvoltura e lasciarla penetrare fin nel midollo delle ossa, mentre ce ne tornavamo al villaggio, dove collo scolo delle vicine alture si forma presso la capanna un torrente che minaccia di portarla al mare, e quindi noi con essa: anche questa poco a poco si allaga: dal tetto cominciano a filtrare alcune goccie che diventano poi altrettanti rigagnoli: sull'angareb è una vera cascata continua e non si può scendere per smuoverlo, chè al suolo c'è acqua da andarvi in barca, per cui si passa la notte in un vero bagno, ridendo dell'avventura e confidando nel sole dell'indomani, che infatti non mancò.
Tornati a Massaua trovammo che anche nel nostro palazzo l'acqua s'era fatta strada attraverso al tetto per entrare nelle camere, non nelle proporzioni però con cui aveva invasa la capanna.
Il giorno 6 gennaio correva la festa del Natale pei Greci e per gli Abissinesi, per cui fin dal mattino l'aria echeggiava di canti, suoni di tamburo e grida selvagge: entrammo in qualche tugurio per vedere il ballo delle donne abissinesi: alcune battono colle mani su un rozzo tamburo, ed altre disposte a circolo accompagnano con una cantilena cadenzata interrotta dal solito trillo acuto, ballando, saltellando, accovacciandosi, poi rimettendosi ritte, girando alternatamente da destra a sinistra o viceversa: le più distinte di quando in quando passano al centro per fare apprezzare le loro movenze lascive accompagnate da sussulti dei muscoli. Spettacolo in cui, per vero dire, la troppa trivialità è alquanto corretta dall'eleganza delle forme di queste brave ragazze, e da una certa grazia che è in loro naturale.
Vedemmo una mattina il cielo sparso di macchie nerastre che poco a poco si andarono avvicinando prendendo quasi forma di nubi: erano miriadi di grosse locuste divise in diversi gruppi. Alcune stettero qualche tempo sopra Massaua, poi se ne andarono verso l'interno in cerca di terreni meglio adatti al loro istinto divoratore.
CAPITOLO III.
Partenza pei Bogos.—In carovana.—Incontro di scimmie.—Paradiso dei cacciatori.—Arrivo alla Missione.—Le propagande.—Il villaggio.—Usi e costumi della popolazione.—Ritorno.—Bellezze del paesaggio.—Fermata a Kalamet.—Nuovamente a Massaua.—Una festa originale.
Per quanto con Ferrari si facessero continuamente gite di caccia, pure la monotonia di questa vita ci stancò, e non sapendo ancora quando si potrebbe definitivamente partire per l'Abissinia, pensammo intanto di andarcene a fare un'escursione nel paese dei Bogos. A noi si associò l'amico Legnani che, pratico del viaggiare in carovana e parlando l'arabo, oltre che simpatico, ci fu pure utile compagno di viaggio. Fissati i camelli e fatti quei pochi preparativi che pensammo necessarii, il giorno 12 lasciammo gli altri compagni, felici di incamminarci ad una vita nuova ed a paesi nuovi.
È uso che il primo giorno non si parta mai la mattina e si faccia solo una breve tappa, quasi a collaudo o correzione del carico dei camelli, per cui anche noi non potemmo ottenere di muoverci prima delle quattro. I nostri camellieri sono biscerini: per tutto abbigliamento un pezzo di tela bianca che avvolta alla cintura scende fino al ginocchio e la notte si stende ad avvolgere tutto il corpo per riparare dall'umido e dal freddo: ai piedi due logori sandali, e per cappello l'originale capigliatura a ciuffo ritto e a ricci o trecce pendenti, contro la sferza del sole: per provvigione qualche pelle che si riempie d'acqua quando se ne trova, ed una piena di dura: per difesa, pendente dalla spalla sinistra, uno spadone colla guardia a croce in ferro e la guaina allargantesi ad uso freccia verso il basso; uno scudo in pelle da ipopotamo, rotondo, con una sporgenza conica al centro; una lancia alta forse due metri nella mano destra.
Oltrepassata di circa un'ora in direzione nord, la seconda diga, ci fermiamo a Onikullo, grossa borgata abitata da indigeni e da piccoli negozianti che tengono in Massaua i loro affari e passano qui la notte, pretendendo sia meno calda: riempiamo le nostre pelli ad un pozzo pubblico, poi proseguiamo volgendo leggermente ad ovest per fare alt verso le sette in un avvallamento qualunque. Le nostre coperte furono i nostri letti, la volta celeste il nostro tetto: alcuni nuvoloni ci fecero temere un'inaffiata in regola, ma la provvidenza ce la risparmiò.
Aperti appena gli occhi, la mattina seguente, ancora in una semi-oscurità e senza muoverci da dove eravamo, si fecero le fucilate a due jene che tranquillamente passavano a pochissima distanza. Non è molto a temere questo schifoso animale che difficilmente