Il fiume Bianco e i Dénka: Memorie. G. Beltrame

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Il fiume Bianco e i Dénka: Memorie - G. Beltrame

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suicidio è rarissimo fra gli Arabi, e non v'ha, si può dire, caso in cui lo si approvi o lo si scusi; tutti, senza eccezione, lo condannano e gli si dichiarano contro più o meno severamente secondo i motivi dai quali esso è determinato. E faccio qui osservare che gli Arabi, quelli almeno coi quali io parlai, non vogliono nè manco supporre che l'attentato contro la propria esistenza possa avvenire con volontà pienamente libera, e quindi con perfetta coscienza dell'atto che viene commesso. L'istinto naturale della propria conservazione è così sentito, che non permette loro di fare una tale supposizione.

      L'uomo, dice il Beduino, deve colla sua savia condotta saper evitare la passione, il dolore, il rimorso, l'infortunio che lo inducono a tanta viltà; o se pure è colto da qualche sciagura improvvisamente, deve trovarsi apparecchiato ad affrontarla e a vincerla. L'Arabo insomma non la intende di scusare in nessun modo il suicida da lui sempre considerato qual vile insofferente del dolore; e però sommamente spregievole.

      E chi crederebbe esservi fra noi, che pur non siamo beduini, chi loda ed esalta il suicidio? — Si volesse almeno riflettere che mentre fra gli Arabi il sentimento di alta riprovazione dei suicidi ne diminuisce grandemente il numero, presso noi invece la lode e la scusa tanto spaventosamente l'accrescono.

      La riva destra del fiume, da Chartùm al 12º grado, non presenta al viaggiatore quell'interesse che gli desta nell'animo la riva sinistra.

      Passato il confine della dominazione egiziana, e dopo le secolari foreste vergini e impenetrabili che a sinistra la dividono dalla potente e brutale razza dei Negri Scìluk, s'ergono a destra del Bàhr-el-Àbiad le montagne dei Dénka. — Ed ora mi tornano alla mente con affettuoso e profondo sospiro i bei momenti quando io e la buon'anima del missionario Angelo Melotto, mio collega, nel 17 marzo del 1859, salimmo la cima di una delle più alte di quelle montagne, per adocchiare in un istante tutta la parte da noi con tanta fatica esplorata nella penisola del Sènnaar ove abitano alcune tribù dénka, fra le quali speravasi di fondare la Missione Italiana. — Le montagne dei Dénka, poste tra il 12º e il 13º grado di latitudine, diconsi Niemàti dalla tribù più vicina degli Abialàñġ; e sulla carta del Werne trovansi del pari fra questi due gradi e son chiamate da lui G. Njemàti; le vedo pure segnate sulla confusa carta di Brun-Rollet sotto il nome di Dj. Hemàja, e su quella del Zimmerman di Jeb.-jemàti. Dagli Arabi poi sono dette Giobàl-ed-Dénka, perchè un tempo i Dénka della penisola s'estendevano a nord fino a quelle montagne; ma, fatti scopo alle continue incursioni degli Arabi Abù-Ròf, si ritirarono poi alquante miglia geografiche verso sud. Tuttavia gli Abù-Ròf fanno a cavallo frequenti scorrerie tra i Dénka per derubare il dùrah, di cui abbondano, e, potendo, anche i loro figliuoli[3].

      Questi Negri, abitanti tra il 12º e il 9º lat. N., sono chiamati Dénka dagli Arabi della penisola del Sènnaar; dagli Arabi poi situati alla sinistra del fiume Bianco sono detti Gianghè, come la tribù che divide i Scìluk dai Nuèr. Ma gl'indigeni si riconoscono col nome di Gièn; e con questo nome generale appellansi tutte le tribù che parlano la lingua dei Dénka, avendo ciascuna anche un nome proprio significativo, come meglio vedremo parlando delle tribù Dénka del Nilo superiore, le quali hanno con queste comuni i costumi.

      I Scìluk però e i Nuèr non sono compresi nel novero dei Gièn, dai quali vengono considerati come antichi invasori delle loro terre. E in fatto essi fanno uso di un'altra lingua, sebbene intendano e parlino pure quella dei Dénka.

      Chi amasse entrare in particolari sulla conquista che la potente e fiera tribù dei Scìluk fece, molti anni sono, del Sènnaar, rendendosi tributario il paese fino a Bèrber, non ha che a leggere il Bruce e il Brocchi[4].

      Presso l'11º grado, a destra del fiume Bianco, s'alza un piccolo monte, che gli Arabi nominano Tefafàn o Bìbar, e i Dénka Kur-uìr, cioè masso del fiume. In questo punto Brun-Rollet sulla sua carta segna un influente, ch'io trovo notato anche su altre carte, a cui dà il nome di Pìper (dal monte Bìbar); ma in realtà non è che un canale, o, per usare della frase dei Dénka, un occhio del fiume (ñġàen) chiamato da essi Tarciàm, il quale esce dal fiume presso il monte Bìbar, e dopo un giro di circa quindici miglia geografiche ritorna nel fiume stesso. La sua maggiore distanza dal fiume è dalle quattro alle cinque miglia. Ciò riscontrai col mio collega defunto Angelo Melotto in una nostra esplorazione fra i Dénka Abialàñġ.

       Indice

      Caratteristiche della razza negra — Il paese dei Scìluk — I cani — Odio contro i Turchi — Raffronti della lingua dei Dénka con quella dei Scìluk.

      Il viaggiatore che parte dal Cairo e si dirige, rimontando il Nilo, verso il sud, traversa successivamente l'Egitto, la Nubia, il Sènnaar; e a misura ch'egli s'avvicina all'equatore vede cangiarsi intorno a sè il teatro delle creazioni di natura.

      Arrivato però a Chartùm (15°, 37′), s'egli continua il suo cammino lunghesso il fiume Azzurro sino a Fazòql, e quindi segue il Tómat fin quasi alle sue sorgenti, si troverà finalmente in mezzo alle tribù nere dei Bèrta, e crederà così d'aver veduto concatenarsi l'Egiziano aborigene col crespo Etiope per una gradazione insensibile di colore, che non gli permetterà di segnare il punto ove finisce l'uomo bianco ed ove incomincia il nero.

      Che se dalla città di Chartùm veleggia pel fiume Bianco verso il mezzodì, egli distinguerà facilmente dall'Arabo giallognolo o bruno i negri Dénka della penisola del Sènnaar, che dal 12º grado si estendono fino al 9º di lat., e i negri Scìluk, posti agli stessi paralleli, a sinistra del fiume.

      Ma i Bèrta, i Dénka, i Scìluk, i quali tutti hanno la pelle nera, ci presentano forse tutti il tipo del vero Negro, del crespo Etiope?

      Il color della pelle, che cade subito sott'occhio, non può essere trascurato da un osservatore superficiale. Le differenze di forme potranno sfuggirgli, ma non quelle di colore, le quali saranno per lui base d'una classificazione grossolana.

      Il naturalista al contrario poco o niun caso fa del colore, il quale talora non serve nè manco a distinguere le varietà d'una medesima specie; e altrettanto dicasi delle tinte dei fiori e delle foglie nelle piante, dei peli e dei capelli negli uomini. La materia colorante, la sostanza, (il pigmentum), che sta nelle cellule dello strato mucoso dell'epidermide, si sviluppa e si condensa sotto l'influenza di alcune circostanze, fuori delle quali sparisce o vi si mostra appena. Quindi è che l'Arabo giallognolo dell' Heggiàs si fa bianco in Algeri e in Aleppo, e bruno nel Sènnaar e sulle rive del Senegàl. Il corpo umano trasportato da una in un'altra latitudine, vi perderebbe la vita se non si producessero in lui delle modificazioni. Sotto una temperatura elevata, un'aria secca, un vento rapido, la traspirazione sarebbe eccessiva se la pelle non fosse resa assai meno porosa e quasi impermeabile a certi fluidi, che sono i veicoli stessi della vita. Una pelle densa e rugosa sottrae il corpo dall'azione troppo brusca delle variazioni atmosferiche; lo preserva da congestioni cerebrali e da colpi di sole; lo ripara dal freddo, imperciocchè arresta l'irradiazione e la dispersione del calore del sangue: sicchè la pelle dei Negri è al tatto meno calda della nostra, e li protegge come protegge noi il vestito.

      Questa pelle densa però non presenta presso tutti gli Africani le medesime tinte di colore. Ma egli è certo che fra i popoli più barbari del centro dell'Africa la pelle offre una tinta assai nera, o s'avvicina a quella della fuliggine, pelle dura, rugosa, la quale facilmente si screpola. Presso i Negri del Sudàn le unghie sono

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