Il fiume Bianco e i Dénka: Memorie. G. Beltrame

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Il fiume Bianco e i Dénka: Memorie - G. Beltrame

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rosa.

      Non si creda però che la pelle abbia lo stesso colore in tutte le parti del corpo. Ov'essa è più densa ha un colore più oscuro, come sui ginocchi, sul gomito, sulle tempie ecc.

      La pianta del piede però, la palma della mano, la pelle posteriore al ginocchio sono le parti meno oscure.

      Il sudore dei Negri, che in generale è poco abbondante, manda un odore acuto, acre, spiacevolissimo. Quindi non deve far meraviglia se le bestie feroci attaccano i Negri a preferenza dei Bianchi. Il loro fiuto annunzia assai più facilmente l'avvicinarsi dei primi che non quello dei secondi.

      Se non che non è la pelle, come già dissi, che noi dobbiamo interrogare per conoscere le differenze reali che passano tra l'una e l'altra razza.

      La fisonomia del Negro puro è talmente caratteristica, che è impossibile, anche a chi non sia molto addentro in questi studi, non riconoscerla a prima vista, quando pure l'individuo avesse la pelle bianca. Le sue labbra sporgenti, la fronte bassa, i denti in fuori, i capelli corti, lanosi, semiricciuti, la barba rada, il cranio depresso, il naso largo e schiacciato, il mento fuggente, le mascelle salienti, gli occhi rotondi, le orecchie grandi, le braccia lunghe e gracili, le gambe arcuate con polpaccio piccolo, i ginocchi semipiegati, i piedi lunghi e piatti col tallone sporgente all'indietro, lo sterno tondeggiante, il corpo un po' curvo all'innanzi e il portamento stanco, gli danno un aspetto speciale fra tutte le altre razze umane.

      La Negra sovente raccoglie da terra degli oggetti, senza punto piegare le gambe; chinando il corpo tutto d'un pezzo, a partir dal bacino, ella prende colla mano ciò ch'ella desidera. Una donna bianca a grande stento potrebbe imitare tale movimento.

      Ciò premesso, i Bèrta, quantunque la loro pelle sia nerissima, non ci presentano il tipo del vero Negro[5], mentre invece sono veri Negri i Dénka e i Scìluk. Dei Bèrta ho già parlato in un altro mio lavoro, ove scrissi pur qualche cosa dei Dénka, dei quali però molto ancora mi resta a dire, che dirò più tardi quando mi toccherà di parlare delle tribù Dénka del Nilo superiore. Or qui non farò che trascrivere alcune note, le quali trovo sparse qua e là ne' miei vecchi giornali di viaggio risguardanti i Negri scìluk e il loro paese.

      Il paese dei Scìluk, che conta dai 15 ai 20 mila, abitanti, dal 12º grado si estende lungo la riva sinistra del fiume fin quasi al 9º di lat. settentrionale, mentre non oltrepassa un quarto di grado in longitudine, partendo dalla riva verso occidente. Esso in generale è fertilissimo; l'estremità sud-ovest però è assai paludosa, e sabbiosa è quella a nord.

      Nelle vicine boscaglie più che altrove crescono i tamarindi, e moltissime piante, che gli Arabi chiamano Àmbag[6] (Aedemone mirabilis), e verdeggianti nàbak (Rhàmnus Nabèca, secondo Forskal,) adornano ambedue le rive.

      Nei luoghi paludosi cresce naturalmente il riso rosso selvatico, e dopo il 10º grado, rimontando il fiume, s'incontrano boscaglie di palme delèb (Borassus Aethiopum) e di palme dóm.

      I Scìluk coltivano con amore il sesàme, il mais bianco (dùrah), piccoli fagiuoli e tabacco. Non parlo degli animali selvaggi, dell'ippopotamo, del coccodrillo, degli animali domestici, poichè son quegli stessi che si trovano nella valle del fiume Azzurro, e dei quali già dissi qualche cosa nel mio lavoro «Il Sènnaar e lo Sciangàllah.» Non voglio tacere però che fra gli uccelli si mostrano qui più frequenti le anitre, i pellicani, le folaghe (anas aegiptiaca, anas gambensis, anas melanotos, anas plotus vaillantii, pelecanus rufescens, sterna leucoptera, fulica atra ecc.); quindi le gru (grus pavoninus, anatamus camelligerus); le ibi, tra le quali la religiosa; le ardee (ardea atricollis, ardea minuta, ardea purpurea).

      Vidi fra i Scìluk una bellissima razza di cani. Il fondo della loro pelle è grigiastro e screziato qua e là di macchie oscure. Essi hanno forme eleganti; somigliano a' nostri levrieri, ma sono più piccoli. Non saprei per qual sentimento, i Scìluk gli amano e li proteggono.... sarà forse per solo interesse, poichè i cani guardano nella notte i loro bestiami. Avvicinandosi qualche fiera alle zerìbeh (ricinti), ove trovasi raccolto il bestiame, essi mettono urli, latrati e guaiti da lacerare le orecchie ad un sordo; i Negri gridano l'allarme, aizzano i cani; questi uniti in frotta s'avventano contro le fiere, e se non possono raggiungerle le inseguono rabbiosamente fino a una certa distanza; qualche volta però piombano loro addosso, e allora ne segue una battaglia feroce, un sottosopra da non poter farsene idea. Le fiere possono rimaner vinte; ma più spesso ci perdono i cani. Qualcheduno nel mattino non si vede più a comparire; qualche altro è là sul terreno disteso vittima della mischia; questi grondano sangue, quelli han rotte le gambe o lacerate le orecchie. Poveri cani!.... e non meriterebbero d'aver dei padroni che gli amassero e li proteggessero un po' meglio di quel che non facciano i Scìluk? Ma essi invece sono abbandonati, vagabondi, senza nome, senza una capanna che li ricoveri, senza leggi. Sono tutti nel deserto, vi si scavano delle piccole tane, vi dormono, vi mangiano, vi nascono, vi allattano i piccini e vi muoiono. Tutto l'amore che i Scìluk hanno per loro si riduce a non maltrattarli, a non permettere che sieno maltrattati e a non lasciar loro mancare il cibo. Non ho udito mai che un cane sia divenuto rabbioso; e sì che da quelle parti i cani patiscono seti ardentissime a lungo tempo sostenute. Bisogna dire adunque che la sete ardente non sia il motivo o, dirò meglio, l'unico motivo della rabbia dei cani. Certo è ch'essa nasce spontanea nel cane, nel lupo, nella volpe, nel gatto, e che questi animali la trasmettono agl'individui della loro specie, ai quadrupedi di specie diversa, ed all'uomo; ma non s'è potuto fin qui dimostrare in che consista la disposizione di detti animali, e specialmente del cane, la quale da origine alla rabbia spontanea, nè quali sieno le circostanze o le condizioni a ciò necessarie. E supponendo pure colali condizioni, si ignorano le cause, onde sono poste in atto. Molte, a dir vero, se ne sono divisate, ma non àvvene alcuna la quale regga ad un esame profondo.

      I primi viaggiatori e mercanti europei che visitarono i Negri scìluk, li trovarono sospettosi, diffidenti, e per conseguenza pericolosi e crudeli. E tali divennero specialmente dopo la spedizione egiziana in Nubia (1821), del cui passaggio si risentirono tanto, mentre essa era diretta verso il fiume Sóbat, e nel suo ritorno a Scèndi. Ma il loro odio contro i Bianchi, ch'essi credevano tutti Turchi, crebbe assai più allorquando, un anno dopo, intesero la disumana strage di Scèndi, per la quale si volle in qualche modo vendicata la morte d'Ismail-Pascià[7]; odio che il monarca e i vecchi del paese non tralasciarono mai d'istillare nel cuore dei giovani, allo scopo di renderli avversi ad ogni relazione coi Bianchi. Fin d'allora i Scìluk ebbero in fondo all'anima il vago sentimento d'una forza aggressiva, crescente, minacciosa de' popoli bianchi, dalla quale temevano o presto o tardi d'essere schiacciati. E quando gli Europei dopo alcuni anni tentarono di metter piede fra loro per recar doni al Capo supremo, in apparenza, ma in realtà, pensavan essi, per vedere, scrutare, fiutare, corrompere e spiare così il terreno per farne una conquista; quando furono veduti con taccuini in mano, con cannocchiali, con istrumenti misteriosi ficcarsi da per tutto, notar tutto, misurar tutto, voler saper tutto.... tanto più crebbero i sospetti ed i timori d'un'invasione, e immaginavano questa invasione accompagnata da tutti gli orrori dell'odio e della vendetta, persuasi com'erano che i Bianchi nutrissero contro di loro gli stessi sentimenti, ch'essi nutrivano contro i Bianchi. Ma a poco a poco i Scìluk cominciarono a distinguere i Turchi dagli altri Bianchi europei ed a comprendere che questi non avevano mire ostili, e che tutt'al più attendevano al solo commercio.

      La prima volta ch'io vidi i Scìluk fu nel 1858, allo spuntar dell'alba del 28 gennaio. Ero coi miei compagni e col missionario Matteo Kirchner, che fu poi degno successore del defunto Provicario Ignazio Knoblecher, quando la dahabìah (gran barca) della Missione, carica delle provvisioni di un anno per le due stazioni di Santa Croce, nella tribù dei Kic fra il 6º e il 7º lat. N., e di Kondókoro, nella tribù dei Bàri tra il 4º e il 5º grado, arrenò in un banco di sabbia presso

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