Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi. Augusto De Angelis
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— Chi?… Chi volete far parlare? Nessuno sa nulla e nessuno parlerà! Neppur io, perché anch’io non so nulla!… Non è il vostro mestiere quello di scoprire gli assassini? Scopriteli, dunque!
Gridava, eretta, tesa, pronta alla lotta.
— Lolly!
Furono due sillabe, che risuonarono secche, come due scoppi.
Dorotea Winckers Shanahan era apparsa sulla soglia e dietro di lei si vedeva pieno di terrore il volto rugoso di Virginia Worth.
La figlia si volse. Le forze di ribellione le cedettero di schianto.
— Giacomo! Giacomo!… – gridò disperatamente. Poi si lanciò attraverso la sala nel corridoio. De Vincenzi non fece a tempo a trattenerla.
Si sentì il rumore della serratura. Apriva la porta, scompariva sotto la pioggia fumosa.
La vecchia non si era mossa. Gli occhi di Virginia s’erano aperti smisuratamente: una rivelazione improvvisa e terribile doveva essersi fatta nel suo spirito.
De Vincenzi, dopo i primi passi fatti verso l’uscio per inseguirla, si fermò.
Fronteggiò le due donne.
— Signora Shanahan, volete dunque che la tragedia continui ad abbattersi sulla vostra famiglia?
Il silenzio, gelido come un muro di ghiaccio, gli rispose.
— Volete che altri morti ci siano?
— Oramai… oramai non c’è più nulla per me! Giacomo è morto!
Virginia ebbe un gesto. Guardò mistress Shanahan con stupore sempre più atterrito. Anche quest’altra delirava, adesso! La spinse con violenza oltre la soglia e riuscì a passare, a mettersela accanto, l’afferrò pel braccio.
— Ma che dite?… Ma che dite?… Il Pastore è vivo!
— Tacete! – gridò De Vincenzi.
— Ah! è stato lei a ingannarla!… Che cosa sperava? Che cosa sperava di sapere con la sua menzogna?…
Lo guardò con infinito disprezzo, mentre Dorotea Shanahan fissava una dopo l’altro la donna e il commissario, cercando di capire.
E la voce sibilante feroce affermò con sicurezza incrollabile:
— Non è stato il Pastore a uccidere Giobbe Tuama. Non è stato il Pastore a uccidere Giorgio Crestansen…
Poi scoppiò in una risata stridula, prolungata, folle:
— E non è stato il Pastore ad abbattere per sempre Beniamino O’Garrich!
R
Capitolo XIII
… E il terzo è riuscito!
De Vincenzi fece i gradini a tre per volta. Quando fu davanti alla porta della cucina, afferrò violentemente la maniglia, ma la porta non si aprì: lui stesso l’aveva chiusa a chiave, per far star tranquillo Beniamino O’Garrich, che aveva paura.
Che cosa aveva detto quella vecchia folle? Non era possibile che avessero ucciso anche Beniamino!… Non era possibile?…
Girò la chiave, aprì. La luce era accesa. Tutto come quando lui era disceso. Ma Beniamino O’Garrich era realmente morto.
Il colosso, crollato in terra, aveva il capo contorto contro una spalla, il volto orridamente contratto in una smorfia mostruosa, le mani e le gambe rattrappite. Gli occhi azzurri, sbarrati, dicevano tutta l’atroce sofferenza della sua agonia.
Il commissario avanzò lentamente verso il cadavere.
Veleno. Non poteva trattarsi che di veleno.
In terra, attorno al corpo, vide brillare frantumi di vetro: un bicchiere rotto.
Chi aveva dato da bere a Beniamino, mescendogli un veleno quasi istantaneamente mortale?
Qualcuno, in ogni caso, del quale l’irlandese non aveva diffidato, ché altrimenti non avrebbe bevuto. E che l’effetto del veleno fosse stato quasi istantaneo era da supporsi, poiché De Vincenzi non aveva sentito gridare e, se l’agonia si fosse prolungata, il corpo del disgraziato, nelle convulsioni estreme, si sarebbe rotolato assai più lontano dalla sua seggiola e dal tavolo.
De Vincenzi tornò sui propri passi, ridiscese le scale.
Era lo scioglimento? Aveva creduto di aver scoperto l’uccisore di Giobbe Tuama e di Giorgio Crestansen… aveva giuocato tutto per tutto per smascherarlo, per avere le prove della sua colpevolezza, fino al punto di recitare una commedia macabra e forse infame con la madre e la sorella del presunto assassino ed ecco che un terzo morto veniva ad aggiungersi alla serie, facendo crollare tutto il castello di presunzioni da lui eretto!
Beniamino O’Garrich non poteva esser stato ucciso dal Pastore Down!
Giacomo Down si trovava a San Fedele, sotto la sorveglianza di Sani, guardato a vista dagli agenti.
Prima di entrare nella grande sala dove aveva lasciato le due donne, si passò una mano sulla fronte. Era diaccia. Sudava freddo. Bisognava vincersi! Doveva lottare ancora, lottare sino alla fine.
Sostò: una grande pietà l’aveva invaso per quel povero uomo, che quella sera era andato a gettarsi proprio nella tana del lupo, credendo di trovarvi protezione e salvezza. E vi aveva trovato la più orribile, la più spasimante delle morti.
Ma perché, perché?…
E chi?
Fece qualche passo e si fermò sulla soglia.
Le due donne – Dorotea Winckers Shanahan e Virginia Worth – s’erano sedute sul divano e si tenevano per mano.
L’infermiera, dopo quel suo scatto folle, che l’aveva indotta a rivelare la morte di Beniamino, sembrava adesso perfettamente normale. Fissava la sua compagna, che taceva immobile irrigidita senza più anima, e aveva nello sguardo una preoccupata ansietà. L’ansietà cosciente e vigile di chi sorveglia un ammalato.
De Vincenzi si inoltrò nella sala. Si fermò davanti alle due ombre nere e bianche, che non si muovevano.
Sì, tutto poteva essere chiaro, senza quell’ultimo morto che giaceva in alto… Tutto chiaro!… Ma occorreva far parlare le due donne.
Ah! se al Presbiterio ci fosse stato un telefono!
Avrebbe chiamato Sani, avrebbe fatto ricondurre il Pastore, avrebbe circondata la casa di guardie.
Era solo, invece, a combattere contro l’imprevedibile. Per dominare la situazione, non poteva che contare sul proprio ascendente e sul fatto che gli avvenimenti avevano talmente precipitato e in modo così tragico da dovere inevitabilmente agire sul cervello e sul cuore di quei due esseri umani, per quanto anormali fossero.